di Attilio Piovano
È riapparso, venerdì 17 maggio 2024 al Teatro Regio di Torino, l’ormai storico allestimento dell’Olandese volante di Willy Decker che aveva aperto la stagione 2012-13, un allestimento di gran classe, fascinoso e ‘suggestivo’ nel senso etimologico del termine, che abbiamo rivisto con piacere; ideato in origine per l’Opéra National de Paris pur risalendo a un paio di decenni or sono, mantiene infatti, quantomeno a nostro avviso, tutta la sua validità e freschezza (regia ottimamente e fedelmente ripresa da Riccardo Fracchia).
Tra gli affezionati melomani torinesi, molti ne avevano ricordi assai vivi, e chi lo ha visto per la prima volta ne è risultato conquistato fin dai primi istanti. Non solo, fa piacere rilevare la presenza di una fascia di spettatori provenienti da fuori città, molti “wagneriani perfetti”, per dirla con G. B. Shaw e parecchi assidui a Bayreuth, così come assidua nel tempio wagneriano è Nathalie Stutzmann che, sul podio dell’Orchestra del Regio, ha compiuto un lavoro davvero eccellente: non a caso salutata da calorosi e partecipi applausi. Non basta: per l’occasione, dacché si sa quanto il coro in tale titolo wagneriano fondato sul concetto di sacrificio e redenzione sia importante, il Regio ha fatto le cose in grande convocando nuovamente anche l’esperto coro Maghini che è venuto ad affiancare in tal modo l’ormai super consolidato Coro del Teatro Regio: ottimo maestro di entrambi i cori il colto e puntuale Ulisse Trabacchin che, a fine serata, ha voluto sul placo altresì Claudio Chiavazza storico direttore del Maghini. Un solo intervallo tra primo e secondo atto e il tempo è filato via in un baleno.
L’acclamata Stutzmann, che a novembre già aveva conquistato in concerto il pubblico del Regio e che tornerà al Festival di Bayreuth la prossima estate, si è rivelata pienamente all’altezza fin dalla mirifica Ouverture (pur con qualche momento in cui la tensione sembrava venire meno, certo intenzionalmente. come pure evitando magniloquenze e monumentalità) navigando con sicurezza tra le acque increspate e tempestose di questa partitura di indicibile bellezza, frutto di un Wagner appena trentenne, già proiettato sulla via della conquista della propria cifra che pure subì una certa influenza del grand-opéra francese. C’è tutto il Wagner futuro in quest’opera sublime: e non solo per la tematica della redenzione che giungerà fino a Parsifal, per le modalità d’impiego dell’orchestra, quanto a concezione drammaturgica che ti incatena alla poltrona e ti tiene col fiato sospeso con l’appeal di una moderna fiction (di quelle di qualità s’intende). La Stutzmann ha potuto contare su un’orchestra in ottima forma e su un cast di ottimo livello. E allora ecco che le emozioni non sono mancate, fin dalle note iniziali, con quelle ondate spumeggianti come tempesta del Mare del Nord, fitte di dissonanze e insistiti richiami di ottoni a prefigurare, con le loro quinte vuote, segnali nautici. E subito si sprigiona tutto il senso della natura che il giovane Wagner eredita dal mondo dell’opera romantica tedesca, Weber in primis, ma c’è anche l’universo italiano (basterebbero il monologo dell’Olandese e la Ballata di Senta a confermare una concezione drammaturgica che era ben consapevole di certo teatro nostrano basato sull’aria-scena), ma Wagner ci mette ovviamente del suo, molto del suo. Un uso già scaltrito del leit motiv, o più propriamente dei cosiddetti motivi-reminiscenza, l’adozione di un’orchestra policroma e duttile e altro ancora.
E allora innanzitutto un plauso speciale alla Stutzmann per come ha saputo cogliere quel senso di contrapposizione, palpabile all’ascolto, del mondo marino da un lato – il mare verrebbe da dire come presenza immanente (analogamente a quanto avviene nel verdiano Simon Boccanegra, pur fatti i dovuti distinguo), il mare dunque col suo fascino arcano – e per contro l’universo borghese, il mondo (a terra) di Daland e della sua famiglia. La partitura infatti divide nettamente i due piani. Ed è palpabile, dopo l’inizio nel segno del mistero, percepire quel senso di casa, di ambiente Biedermeier, borghese e tranquillo, dove al cicaleccio quotidiano, reso da un’orchestrazione trasparente, leggera e leggiadra, si mescolano aspirazioni un poco più elevate e progetti matrimoniali. E allora ecco che la partitura si declina talora in ritmi di danza e serene atmosfere: uno dei temi, celeberrimo, destinato a ricorrere spessissimo in partitura, richiama da presso il finale del Concerto per pianoforte e orchestra op. 54 di Schumann, e suona ottimista e festoso. Quando per la prima volta Daland e l’Olandese argomentano del possibile matrimonio, ecco che la partitura si fa cordiale e quasi bonaria, sa di casa, di calore di camino e di calore degli affetti domestici. Come un mare ormai in bonaccia, come a delineare il senso della tranquillità e della imminente, agognata sicurezza. Ma il fatalismo tragico è insito nel destino degli uomini. E allora ecco i tratti di inquietudine nella personalità di Senta, turbata e percorsa da brividi di ineluttabilità. Dal podio la Stutzmann ha ben colto tutto questo nella sua efficace lettura dell’opera.
Nell’Olandese, che pure prevede in molti tratti uno spessore orchestrale davvero notevole, le voci, si sa rivestono un ruolo non meno centrale. E allora merita rilevare subito l’ottima prova fornita dagli applauditi protagonisti, il baritono statunitense Brian Mulligan, nel ruolo impervio dell’Olandese, che ha saputo per così dire umanizzare, nel senso migliore: pur mantenendo al personaggio quel che di tragico che lo connota, Mulligan ne ha rilevato anche i tratti sensibili di uomo che vorrebbe risparmiare sinceramente alla morte la devota Senta, attenuando qualcosa (ma invero non troppo) del versante per così dire fantastico e da leggenda nordica. Voce possente e sicura, omogenea, e buona presenza scenica.
Davvero molto convincente il soprano sudafricano Johanni Van Oostrum nel ruolo di Senta (assai apprezzata anche sul piano scenico, in assoluto la più applaudita a fine serata): ha saputo renderne l’inquietudine che la divora lasciando come si suol dire il segno, con bei suoni filati e delicati pianissimi, dove occorre, superlativa nella sua celebre Ballata. A impersonare Daland il basso Gidon Saks, verosimilmente in grado di restituirne le varie sfumature psicologiche: colpito da un malessere, come da annuncio prima dello spettacolo, ha cantato ugualmente, pur tuttavia non sarebbe corretto valutarne appieno la performance date le sue non buone condizioni.
Convincente in media il cacciatore Erik del tenore americano Robert Watson, sfortunato (e disperato) fidanzato di Senta: il suo scoramento era palpabile negli accenti vocali, qualche gesto forse prevedibile e impacciato e qualche goffaggine di troppo (e pazienza per un occasionale incidente vocale). Bene il timoniere del tenore Matthew Swensen, talora poco udibile la nutrice Mary della pur valida e partecipe Annely Peebo. Della superlativa prova dei due cori già si è detto, ma merita ribadirlo.
Da ultimo, perché è aspetto non certo secondario che, come tale, merita una serie di riflessioni, la regia del citato Decker, tutta giocata «sulle assenze e sulle suggestioni», e le scene di Wolfgang Gussmann illuminate dalle eccellenti luci di Hans Tölstede (sapientemente riprese da Vladi Spigarolo): accurate nei minimi dettagli, al servizio della drammaturgia, per lo più livide e taglienti, ad accrescere il senso della tensione che ‘sale’ fin dall’Ouverture.
Le scene dunque, anzi per meglio dire la scena, di fatto unica e perfettamente funzionale. Bellissima ed elegante, sghemba, con una gigantesca porta bianca sulla destra a rendere il senso del destino che sovrasta gli umani in una scala molto più vasta e a far da tramite tra il mondo esterno – con squarci sul mare, ora azzurro, ora nero, ora rosso, ora verde intenso, dalla quale si intravedono le vele rosso sangue del veliero – e l’interno dominato da un olio sulla sinistra ad evocare ancora una volta il mare e le sue proteiformi metamorfosi (mentre il celebre ritratto è formato mignon e sta (quasi)costantemente nella mani di Senta). Pochi elementi (corde, alcune sedie), in uno spettacolo fastoso e nel quale, peraltro, tutto è essenziale e fortemente evocativo.
La regia, allora: qualcuno mugugnava ancora una volta (a nostro avviso inutilmente e capziosamente) lamentando che «non si è mai visto entrare in casa una nave». In realtà i marinai trascinano coreograficamente, e con grande impatto emotivo, gomene fin nella parte centrale del palcoscenico. Ed è cosa d’effetto, davvero. Una regia intelligente, metaforica e sapiente, evocativa, capace di far presa sullo spettatore intelligente e perspicace. Che non sta a preoccuparsi (prosaicamente) come mai i marinai bivacchino nello stesso spazio in cui poi si muoveranno Senta e le filatrici; che non sta a disquisire più di tanto sul perché le filatrici siano in realtà ricamatrici impegnate su un enorme lenzuolo-simbolo di parecchi metri quadrati (in assenza totale di arcolai). Certo qualche perplessità la suscita, in chiusura dell’opera, la tragedia di Senta che si consuma con un coltello (lo stesso maneggiato dall’iracondo Erik) mentre il libretto prevede che si getti tra i flutti. Obiettivamente si tratta di un (più o meno piccolo) travisamento: ma è peraltro la coerente soluzione, in conseguenza dell’assenza realistica del mare, fare uscire Senta dalla porta e lasciare solo immaginare il salto nei flutti invero non sarebbe stato per nulla efficace né credibile. Mentre vanno rilevati i movimenti scenici di grande efficacia delle masse di marinai e ragazze che festeggiano, ancora una volta nel medesimo ambiente, e non già sul cassero della nave, e il loro parallelismo assume un valore simbolico. Insomma una regia di innegabile impatto, al di là delle filosofeggianti (e solo in parte condivisibili) dichiarazioni di intenti dello stesso Decker che lesse l’opera in chiave pseudo-psicanalitica: ciò che conta è il risultato in teatro, e questo è davvero di notevole levatura. Successo vivissimo e applausi protratti a tutti, con un picco speciale per la Stutzmann e la Oostrum.