di Attilio Piovano
Era da tempo che la pucciniana Fanciulla del West non compariva sulle scene torinesi, precisamente dal 2004, quando andò in scena la ‘storica’ edizione della Los Angeles Opera per la regia di Giancarlo Del Monaco e la direzione di Steven Mercurio.
Un’opera che non capita di vedere spesso, ed è un vero peccato. Non a caso, per incontrare altre edizioni torinesi, occorre risalire alquanto nei decenni. Per ovvie ragioni anagrafiche, sono ormai uno sparuto manipolo i melomani che conservano tuttora memoria, con grande emozione, del trionfo della mitica Magda Olivero nel 1966; più numerosi invece coloro i quali hanno ricordi più o meno nitidi dell’edizione del 1974, con Domingo, la regia di Faggioni e la direzione di Sonzogno. Di quella del 2004 si è accennato. Al Regio, a venti anni esatti, dunque, dalla citata edizione della Los Angeles, nell’anno delle celebrazioni per il centenario della morte di Puccini, ecco un nuovo allestimento che reca la firma di Valentina Carrasco.
Tratta dalla commedia di David Belasco, una pièce di forti contrasti passionali e d’avventura che propone uno scontro all’interno di un triangolo amoroso, La fanciulla del West – si sa, ma sia permesso ribadirlo a chiare lettere – pur su libretto non eccelso di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, è opera di grande pregio, benché sia stata sempre un poco messa da parte e (troppo) sottovalutata dalla critica, invero quasi del tutto ingiustamente. Non ci sono – occorre ammetterlo – grandi arie e momenti memorabili come in Bohème o in Tosca (salvo i brevi squarci di «Laggiù nel Soledad» di Minnie e «Ch’ella mi creda» di Johnson) ma che importa? Per converso c’è un senso saldissimo della drammaturgia a sostegno di un realismo che definire verista è riduttivo e fuorviante, significherebbe infatti ricondurre ad etichetta un macrocosmo ben più articolato e complesso: la scena della partita a poker, al clou del second’atto, col pizzicato dei contrabbassi rafforzati dai timpani, minacciosi e incalzanti a rendere il pathos del momento topico e una vocalità tesa fino al limite del recitato, ne è forse l’esempio estremo e maggiormente geniale. Più ancora: c’è un linguaggio di grande modernità, specchio di un consapevole e in gran parte riuscito desiderio di rinnovamento linguistico. Scale esatonali che occhieggiano a Debussy fin dall’esordio e accordi di quinte aumentate che ‘galleggiano’ ovunque, nella loro voluta indeterminatezza, echi straussiani, passaggi di notevole audacia armonica, poliritmie, ragtime e cake-walk, ovvero accenni al linguaggio del jazz, influssi popolari (una ninna-nanna pellerossa), e molto altro ancora, segno di una curiosità intellettuale da parte di Puccini che non ha eguali tra i suoi contemporanei.
Soprattutto resta tuttora ammirevole l’orchestrazione magistrale, geniale e varia, una strumentazione policroma che tiene avvinti in ogni momento della partitura dalla raffinatissima eleganza timbrica. Una partitura fastosa e pur piena di finezze, come l’arpa ad imitazione del banjo, la macchina del vento per la bufera di neve del second’atto, incorporei rintocchi di campane e seducenti sonorità di vibrafono, certe rarefazioni timbriche degli archi accanto a rutilanti impennate delle percussioni, in un tripudio quasi raveliano a sottolineare i momenti di più animata vivacità corale della vicenda.Se, come accade ora al Regio, il cast è di buon livello, la regia, pur provocatoria, è intelligente e a suo modo efficace, come si dirà, le scene sono di natura ‘cinematografica’ (è il caso di dirlo) e la direzione, per la quale sarà opportuno avanzare alcune riserve, pone pur tuttavia in luce gli elementi salienti della partitura (ancorché non tutti), ecco che il successo è assicurato.
Per mettere a fuoco appieno lo spettacolo sarà bene partire dalla regìa. L’assunto dell’argentina Valentina Carrasco, al suo debutto al Regio, già vincitrice del prestigioso Premio Abbiati della critica, è stato quello di immaginare il set cinematografico di un western, trasformando idealmente il Regio in un teatro di posa, entro il quale inscrivere lo svolgersi del melodramma pucciniano. Per carità, l’idea non è certo né nuova né originale, pur tuttavia funziona (data la specificità di Fanciulla, beninteso) e conquista un poco alla volta, soprattutto a partire dal second’atto. Dunque movimentazione delle scena a vista, come frammenti appunto di un set in via di allestimento, presenza di assistenti, macchinisti, tecnici e membri della troupe in scena, che poi si appartano di lato per consumare i pasti come fossero a Cinecittà e via elencando. Tutte cose che in apertura, ancorché non disturbino, tuttavia appaiono (forse) un poco esornative. Poi però, a poco a poco, se ne comprende la ratio. E allora quelle inquadrature e quei primi piani sui personaggi, che mirano a porre in rilievo momenti di spicco e altro ancora. Un esempio per tutti: il primo piano, rimandato dallo schermo a centro scena, della protagonista Minnie che bara al gioco nella famigerata e risolutiva partita a poker, consente di comprendere senza ombra di dubbio il senso della partita truccata: in altre parole, l’espediente di portare in primo piano quanto ‘tecnicamente’ in teatro si può fare solo con un binocolo, finisce per ovviare per l’appunto alla mancanza di primi piani nel mondo lirico. È un dettaglio, certo, e così pure da citare la scena del bosco, ovvero della foresta con gli alberi innevati: che poi viene ‘smontata’ a vista e sostituita da un’assolata strada sulla quale i protagonisti si incamminano, a rendere lo scioglimento catartico della vicenda e l’allontanarsi ‘fisico’ dei protagonisti (come si sa in Fanciulla, per una volta nessuno muore). Un espediente in apparenza forse un poco ingenuo, ma funzionale.
Ci aspettavamo un pur anacronistico mascherino nero che a poco a poco si restringe come nei finali di certi film d’antan, ma ci è stato risparmiato. Non così i titoli di coda che scorrono sullo schermo, invero con ironia e arguzia. Scene oleografiche e dal tono naïf, pittoresche ed iper realistiche, ma coerenti, dall’esplicita ambientazione western, quelle di Carles Berga e Peter van Praet (il fuoco nel braciere all’alba nel villaggio di baracche, lanterne, la neve immancabile che cade sulla capanna nei monti della Sierra) così pure dicasi dei costumi di Silvia Aymonino che intendono richiamare «le atmosfere di film cult di Sergio Leone» con il ricorso a fotografie e documenti storici.
Da citare Gianluca Mamino direttore della fotografia. Un po’ altalenanti (verrebbe da dire ‘a corrente alternata’, se l’espressione non risultasse grottesca) le luci di Peter van Praet che convincono solamente in parte: non tanto e non solo per certe poco comprensibili scelte cromatiche, quanto soprattutto per certe un poco casuali alternanze di rischiararsi ed oscurarsi della scena in tratti che non paiono collimare con la temperatura emotiva della partitura.Ed ora la direzione. Francesco Ivan Ciampa, pur ottimamente assecondato dall’Orchestra del Regio, occorre ammetterlo, ha impresso un vigore e una rilevanza sonora talora eccessivi, col rischio di appiattire spesso le dinamiche verso l’alto e sacrificare in qualche caso le voci, coprendole (così in apertura la protagonista). Al Regio Opera Festival aveva diretto nel 2022 Cavalleria con focoso ardore. Ma Fanciulla è cosa diversa. Avremmo desiderato maggior cura nei dettagli come la partitura pucciniana richiede, timbricamente sempre varia e duttile, ritmicamente ricca di verve, un maggior equilibrio complessivo insomma.
La sera della prima non tutto pareva calibrato, in qualche caso si è avuta perfino la sensazione che qualche strumento, come la tinnula celesta, fosse talmente in presa diretta da sembrare addirittura inopinatamente amplificato. Avremmo voluto maggiori screziature timbriche e in definitiva un più accurato lavoro di cesello. Ma tant’è. Molto bene il coro maschile ottimamente istruito da Ulisse Trabacchin che ha disimpegnato con incisiva souplesse un ruolo non certo secondario. Al coro si mescolavano i mimi, dunque macchinisti e via dicendo, alludendo (forse) al mix di finzione e realtà come in una sorta di meta teatro.Quanto alle voci il soprano statunitense Jennifer Rowley al debutto nel ruolo di Minnie, la vera eroina-simbolo del vitalistico trionfo della passione sulla ragione, in bilico tra mesta solitudine, spregiudicato cameratismo, spavalderia fiera e intenerimenti, ha convinto solamente in parte; ha voce non omogenea, carente nella regione media e con eccessive e stridule asprezze negli acuti. Ciò nonostante ha fatto del suo meglio nell’appassionata scena d’amore del secondo atto e ancora nel finale catartico, laddove riesce a ribaltare la vicenda con il suo carisma di donna singolare nel variopinto universo dei rudi minatori. Bene il baritono Gabriele Viviani dalla gradevole timbratura (Jack Rance, lo sceriffo, cinico e spregiudicato), sia per vocalità appropriata e curata, sia per convincente presenza scenica, buona anche la performance di Roberto Aronica, tenore dallo smalto lucente nel ruolo di Dick Johnson, alias il fuorilegge Ramerrez sotto mentite spoglie, rivale in amore del perfido sceriffo: ha regalato istanti di emozione, specie nel secondo e terz’atto. Nei ruoli principali si alternano Oksana Dyka (Minnie), Massimo Cavalletti (Jake Rance) e Amadi Lagha (Dick Johnson) nelle repliche. Davvero lunga la lista dei comprimari: l’agente della compagnia dei trasporti, il cameriere della ‘Polka’, minatori, cantastorie, indiani pellirosse e postiglione, tutti positivamente impegnati a dar vita a uno spettacolo animato e vario, con momenti di insieme di innegabile impatto emotivo e visivo (il saloon dove il whisky scorre a fiumi e la scena corale in chiusura, con quel tanto di mieloso nel ribaltone psicologico), ma anche con tratti intimisti di indubbia presa. Peraltro tra i minatori animati dalla febbre dell’oro con i loro sentimenti schietti e la psicologia elementare, vi sono non pochi ‘cammei’, tipi umani con le loro microstorie che circondano i protagonisti, dando nerbo emotivo alla vicenda dell’opera. Per amore di completezza li nominiamo tutti. E dunque: Francesco Pittari (Nick), Paolo Battaglia (Ashby), Filippo Morace (Sonora), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid e Billy Jackrabbit), Alessio Verna (Bello), Enzo Peroni (Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Ksenia Chubunova (Wowkle), Gustavo Castillo (Jake Wallace), Adriano Gramigni (José Castro), Alejandro Escobar e Luigi Della Monica (un postiglione).
Applausi convinti e buon successo complessivo per uno spettacolo di apprezzabile livello, pur decretato da un pubblico (colpevolmente) troppo scarno la sera della prima.