Era dal 7 dicembre del 1989 che l’opera più emblematica di tutta la produzione rossiniana non veniva data alla Scala, sia per le difficoltà intrinseche (durata, completezza, lingua originale, scelta dei cantanti) sia perché l’ultima produzione a firma Muti-Ronconi aveva avuto una accoglienza trionfale anche se non del tutto omogenea a causa delle contestazioni sindacali e dell’accoglienza titubante nei confronti della regìa.
Riassumeva bene Duilio Courir il giorno seguente sul Corriere della sera: «Questa è un’opera che ha sempre vissuto scenicamente con dei mezzi convenzionali e oleografici … Ronconi ha optato per mutazioni paesistiche continue affidate alle proiezioni di immagini di Giuseppe Rotunno» per illustrare le coraggiose scene di Ronconi che i più maliziosi avevano detto essere state suggerite dall’ufficio del turismo della Confederazione Elvetica. In quanto a Riccardo Muti si lodava il cammino da lui seguito dal lontano “Tell” fiorentino del 1972; Merritt e la Studer erano indicati come i trionfatori vocali della serata.
A un altro componente della famiglia Muti, la figlia Chiara, era questa volta affidata la regìa, fin troppo complicata dai richiami a un’atmosfera estremamente cupa e nebbiosa con edifici e macchinari che si rifanno alle scene di Metropolis di Lang, con neri grattaceli rotanti tali da suggerire difficili temi di esame agli allievi di Meccanica Razionale dei Regi Politecnici. Il protagonista è l’unico personaggio libero e immerso nella natura (ma quale natura aveva spazio in questa regia e nelle scene di Alessandro Camera ?) rispetto agli abitanti che fingono di essere felici e per nulla consci di popolare un mondo di macchine, simbolo del giogo asburgico. Macchine che erano anche rappresentate dai soliti fastidiosi tablet che sembrano, insieme con gli smartphone, componente irrinunciabili dei moderni allestimenti operistici. Qui lo stesso popolo che dovrebbe essere cullato dal Pescatore con il suo canto che evoca una felicità irreale diventa assimilabile alla pletora di viaggiatori immersi nei loro telefonini pieni di social e filmati vari. Ci sarebbero numerosi altri esempi di travisamento del libretto che hanno reso a volte insopportabile la parte scenica ma, per dirla in poche righe, raramente si è visto qualcosa di più distaccato dalla meravigliosa parte musicale che, lungi dal dimenticare gli aspetti tragici e luttuosi del soggetto, vira sempre verso un contesto melodico e armonico che profuma di speranza verso una vita migliore. Rossini nella sua ultima opera inventa tra l’altro espedienti musicali che si divertirà anni dopo a utilizzare nei Péché de vieillesse e che rendono quest’opera così lontana da tutti gli esempi precedenti, eccezion fatta per qualche ricordo delle partiture “serie” come Otello o Semiramide. La regìa non è nemmeno aiutata dalle coreografie di Silvia Giordano, spesso goffe e del tutto inappropriate. Come riassume efficacemente Claudio Toscani nelle sue note di sala, Rossini riprende i temi della libertà e della indipendenza nazionale nella Parigi rivoluzionaria del 1830 e precede il grand-opéra. Libertà e amore per la natura sono infatti elementi tipici del romanticismo e l’Ouverture li riassume nelle sue parti differenziate che evocano paesaggi, la mancanza di libertà del popolo, la descrizione di una natura irata e infine splendente. Danze, cori, momenti scenografici (si ricordi ancora la regìa di Ronconi) non sono di effetto gratuito e non bisogna dimenticare che l’Opéra aveva imposto una illustrazione esatta dell’azione inviando in Svizzera lo scenografo del teatro per un sopralluogo.
Dato per scontato come oggi per il Tell non sia più proponibile la versione italiana di Calisto Bassi, che evitava riferimenti politicamente censurabili e veniva solitamente eseguita con numerosi tagli, abbiamo dunque assistito alla versione originale francese che non è affidabile alla partitura originale al cento per cento ma è quasi integrale e ha tenuto impegnato il pubblico per diverse ore.
La compagnia di canto richiederebbe per quest’opera almeno delle voci maschili degne dei fasti del passato. Pertusi, il nostro Tell, ha giocato mettendo in campo tutta la sua arte per evocare una figura impegnativa di basso-baritono, Dmitry Korchak è riuscito nell’intento di emulare i fasti leggendari di Duprez che introduceva gli acuti “di petto” contrariamente a quelli in falsetto o di testa voluti dalla vecchia tradizione italiana. Una prassi quest’ultima seguita anche da Rossini che non evitò di condannare la nuova maniera, peraltro favorita dagli entusiasmi del pubblico. La georgiana Salome Jicia, Mathilde, sostituiva la Rebeka con ottimi risultati anche se certi acuti non erano esenti da emissioni forzate o metalliche. Meritevoli di elogi tutti gli altri cantanti, dal Melcthal di Evgeny Stavinski, al Furst di Nahuel Di Pierro, dal terrorizzante Gesler di Luca Tittoto al figlio di Tell (Jemmy ossia Catherine Trottmann) alle prese con la sua mela e con una parte tutt’altro che facile, dalla Hedwige di Géraldine Chauvet agli altri ruoli maschili (Brayan Nartinez, Rodolphe; Rodi, Dave Monaco).
I risultati si sono fatti sentire al termine delle arie in certi casi a loro assegnate e alla fine della recita dove tutti i protagonisti hanno ricevuto vere e proprie ovazioni, indirizzate anche allo splendido Coro diretto da Alberto Malazzi. Il tutto non avrebbe potuto avere luogo senza la presenza diciamo pure già carismatica di Michele Mariotti, protagonista di un Tell replicato qualche anno fa, cresciuto nella Pesaro rossiniana e molto amato da certo pubblico che lo vorrebbe già direttore stabile del Teatro. Mariotti ha diretto con scienza e passione, lasciando forse titubanti i presenti a partire da una Ouverture dove non erano del tutto chiare le intenzioni nel bilanciamento delle quattro parti. Si intende dire che un direttore ancor più maturo (e l’esempio di Muti nel 1988 lo testimonia) avrebbe potuto spalmare con altra arte gli eccessi di forza e di urgenza espressiva. In ogni caso Mariotti ha ricevuto una risposta davvero osannante da parte del pubblico e se per nostro convincimento vi sono altre figure che hanno maggior diritto alla successione scaligera non è detto che in un prossimo futuro e con un repertorio più vasto il suo nome non venga tenuto in giusta considerazione.
Da ciò che si è detto il team coordinato di Chiara Muti ha solamente meritato fischi e altre espressioni di diniego da parte del loggione e non solo.