Una vera e propria standing ovation a fine serata, con pubblico in piedi, esaltato ed esagitato, gente che si affollava sottopalco, commozione, sfarfallio di schermi dei telefonini intenti a scattare foto e immortalare in frammenti di video una serata che in molti devono aver reputato memorabile. Il dettaglio cronachistico testé registrato la dice lunga sulla fama mediatica (e non solo) dell’acclamato pianista cinese Lang Lang, una vera e propria star osannata da schiere di acritici ascoltatori ed appassionati. Se possiamo permetterci il termine, un pianista pop nel significato più ampio di una parola oggi forse abusata.
Davvero il recital tenuto dal pianista a Torino, la sera di venerdì 23 febbraio 2024, per I Concerti del Lingotto, in una sala comprensibilmente gremita all’inverosimile, avrebbe potuto rivelarsi determinante per ‘misurare’ con serenità e senza preconcetti la reale maturazione dell’artista, quella che (quasi) solamente in un concerto live è possibile apprezzare, dacché le registrazioni – si sa – anche quelle cosiddette dal vivo sono in realtà sempre frutto di pur piccole, ma significative manipolazioni. Un pianista, Lang Lang, che continua per l’appunto ad esercitare un fascino immenso presso il pubblico, e la circostanza va presa con la massima serietà e il dovuto rispetto, ci mancherebbe, suscitando nel contempo perplessità presso i critici (e non paia il solito stereotipo: ciò che piace al pubblico non va a genio ai critici saccenti che storcono il naso e viceversa).
Il programma si apriva con la mirifica e sublime Pavane op. 50 del raffinato Fauré. Una pagina a torto considerata da taluni studiosi ‘minore’ mentre invece, quantomeno a giudizio di chi scrive, è opera assolutamente emblematica della scrittura dell’autore della Pénélope. Lang Lang in apertura ci ha subito conquistati, restituendone al meglio (così pareva) tutta la melanconia un poco frale e decadente, l’estenuazione timbrica, l’ambientazione coloristica. Bei fraseggi (anche se l’autore prevede uno staccato nella sinistra ad imitazione degli archi dell’originale versione, del tutto disatteso dal pianista, e si vada ad ascoltare Fauré che suona se stesso) tocco appropriato ed un clima soffuso, alonato. Poi, in apertura della più animata sezione centrale (per i pedanti a battuta 43), ecco un re grave indicato fortissimo, e Lang Lang ha sì rispettato il dato prescritto, ma suonando quella nota in ottava con un tale vigore e una tale aggressività che pareva una fucilata improvvisa entro lo stormire delle fronde in un bosco umbratile. Ecco, è questo che sconvolge in Lang Lang, certe sue intemperanze sonore che risultano completamente estranee al brano in questione, che sia Fauré o le successive pagine schumanniane e chopiniane poi proposte. Intemperanze dinamiche, ovvero fortissimi aggressivi come nemmeno in Prokof’ev o Bartók si accetterebbero, che rischiano di snaturare quanto si sta ascoltando. È perfino venuto il dubbio che il pianista abbia richiesto un’accordatura, meglio ancora una registrazione dello Steinway gran coda, tale da avere a disposizione bassi ‘orchestrali’ estremamente sonori e sinfonici (talora al limite dello sguaiato).
A seguire lo Schumann di Kreisleriana dove Lang Lang ha proposto dettagli davvero fascinosi, qua e là, accanto a frasi incoerenti da un punto di vista del fraseggio, non paia un gioco di parole, frasi melodiche che incoerentemente collidevano con il ‘senso’, la ratio dell’armonia, una pedalizzazione spesso di gran classe, ma talora invece assai discutibile. Certo, possono sembrare annotazioni estremamente tecniche e da addetti ai lavori (quanto fa la differenza tra un artista e l’altro) ed è ciò che di norma il pubblico non percepisce, privilegiando l’aspetto – absit iniuria verbis – per così dire istrionico dell’interprete. Che ha, beninteso, una tecnica davvero eccellente ed infallibile (ma a quei livelli la tecnica ormai oggi la possiedono quasi tutti, un po’ come nel mondo sportivo, è un dato imprescindibile, qualcosa di acquisito, che non deve e non può mancare). Ma attenzione, la tecnica non è solo velocità e possanza sonora, la tecnica significa anche controllo del suono, capacità di variare il tocco in mille appropriate sfumature, timbratura e molto altro ancora.
E allora ecco in Schumann delicatezze e rarefazioni, ma anche quelle libertà eccessive nelle dinamiche e più ancora quei suoi forti e fortissimi peculiari Per contro anche certe estenuazioni sonore, certi rallentandi e talune sonorità al limite dell’inudibile appaiono eccessive, verrebbe da dire dionisiache, in qualche caso risultando davvero leziose. E la leziosaggine è uno degli aspetti del pianismo di Lang Lang: si badi bene, si parla di leziosaggine sonora e non visuale, alla quale si rimedia facilmente evitando di guardare la gestualità del personaggio che a taluni può risultare irritante, come nel caso di certi direttori d’orchestra dal gesto iper manierato ed affettato. L’affettazione di Lang Lang è tutta sonora ed emerge anche evitando di osservarlo mentre suona. Apprezzabile poi il senso della forma, questo occorre ammetterlo, ad esempio nel n. 5 di Kreisleriana, come pure apprezzabile (ma altri pianisti sanno emozionare di più in tal senso) il gioco di certe polifonie timbriche, verso la parte finale del capolavoro schumanniano. Dell’ultimo brano, poi, quello che chiude la silloge, Lang Lang ha fatto una palestra di virtuosismo, vanificando per lo più l’esprit della complessa pagina che non è solo abbacinante velocità e potenza sonora.
Così pure dicasi della Polacca in fa diesis minore op. 44 eseguita in chiusura di serata, dopo una scelta antologica di ben dodici Mazurche. E dire che il pianista aveva avuto cura e finezza di inserire come ultima Mazurca una pagina (l’op. 59 n. 3) nella stessa tonalità della successiva Polacca, salvo glissare su tale non secondario particolare, concedendosi una più che doverosa pausa (e relativi applausi) dopo il blocco non monolitico delle Mazurche stesse. E una parte del pubblico, forse, avendo perso il conto dei brani, avrà immaginato che la Polacca fosse il primo bis. Chissà.
Delle Mazurche l’unica che ha davvero emozionato fortemente chi scrive queste note è stata l’op. 17 n. 4 entro la quale l’artista ha saputo delineare un colore specialissimo, un’ambientazione quasi simbolista se non pre impressionista. Davvero affascinante e stilisticamente centrato. Emozioni parziali poi anche nell’op. 30 n. 4. Nella restante parte di programma (le ulteriori Mazurche) occorre registrare i medesimi atteggiamenti già evidenziati in Schumann, e dunque improvvisi bagliori dinamici e timbrici, per lo più del tutto ingiustificati, come ingiustificato ed inutilmente teatrale è stato l’eccesso di volume sonoro nella citata Polacca, e vien da pensare che Chopin amava esibirsi nella dimensioni dei salotti e con pianoforti (gli amati Erard) dalle sonorità ovattate. Ma si sa che la grande sala ed il pubblico da stadio hanno ben altre esigenze.
Due i bis, una sdolcinata Romanza di cui non si sentiva affatto l’esigenza, con armonie quasi da piano bar, ed una altrettanto artefatta elaborazione del tema penta fonico che Puccini sublimò con poesia immensa nella indimenticabile Turandot. Pubblico in delirio.