di Attilio Piovano
Grande attesa al Regio di Torino per il ritorno di Riccardo Muti che la sera di mercoledì 21 febbraio 2024 ha diretto il verdiano Ballo in maschera registrando, com’era prevedibile, un successo personale a dir poco strepitoso. E si è trattato di un nuovo allestimento del capolavoro verdiano per la firma di Andrea De Rosa realizzato grazie al contributo di Reale Mutua. Cinque le repliche sino al prossimo 3 marzo. Un titolo che non ritornava nella sala molliniana dal giugno del 2012, quando aveva chiuso la stagione, riprendendo peraltro un allestimento ancora più antico risalente al 2004.
Opera sublime dell’incipiente maturità (andò in scena per la prima volta al Teatro Apollo di Roma il 17 febbraio 1859) Un ballo in maschera è partitura difficile sotto vari aspetti, manco a dirlo, passata attraverso le consuete strettoie della censura: opera drammaturgicamente ma soprattutto musicalmente eccelsa, dall’orchestrazione densa e variegata, piena di contrasti. Non solo il classico triangolo amoroso, bensì congiure, amori, gelosie e tradimenti, ma anche maledizioni, vaticini e un tragico epilogo; un crogiolo insomma di quelle situazioni drammaturgiche così congeniali a Verdi che per l’occasione – si sa – attinse a Gustave III ou Le bal masqué di Scribe, volto in libretto dal fedele Somma (e ne sortì un libretto efficace sul piano teatrale, ancorché oggi irrimediabilmente desueto). Opera dal colore tendenzialmente cupo, nonostante certune pagine per così dire leggere, nel contempo opera importante per le novità musicali che Verdi vi profuse, specie nel second’atto di innegabile bellezza, e in special modo sul piano della raffinata tecnica orchestrale e così pure sul versante armonico (a partire dal superbo Preludio dagli spunti fugati destinati a riapparire verso la fine in luogo topico per lo scioglimento dell’intricata vicenda).
Muti ha compiuto sull’orchestra un lavoro di scavo a dir poco eccezionale e minuzioso, traendone sonorità duttili e pastose, ove occorre, e per contro indicibili ed efficaci ‘asprezze’ (quell’accordo dissonante con il rombare del timpano che pare in anticipo sulla superba Messa da Requiem), centellinando l’intera partitura, ponendo in rilievo anche minimi dettagli che raramente accade di percepire. E l’orchestra del Regio l’ha ottimamente assecondato fornendo una prova davvero eccellente e fa piacere constatarlo, ribadendo l’alto livello raggiunto dalla compagine torinese (da elogiare le prime parti, in special modo il primo violoncello Amedeo Cicchese, il primo flauto Sara Tenaglia per i ruoli solistici ad essi assegnati e l’arpa di Elena Corni in «Eri tu che macchiavi quell’anima»). Ammirevole la direzione di Muti nell’aver posto in rilievo non solamente il lato brillante della partitura, che pure – è innegabile – ha il suo peso, imprimendo dunque ritmi gagliardi e balzanti, ma soprattutto per aver dato corpo, incredibile lezione di stile, a quegli aspetti di modernità, quei trasalimenti, quelle tortuose inquietudini, quei dettagli intimistici che in partitura si annidano e che Muti ha fatto emergere con singolare pregnanza. E poi lo spettro amplissimo delle dinamiche, una capacità di ‘visualizzare’ con palpabile efficacia ed immediatezza gli impasti timbrici ideati dal sommo Verdi e così pure, già lo si anticipava, l’emersione di singoli strumenti sulla pasta orchestrale.
Che sarebbe stata un’interpretazione di altissimo livello lo si è compreso fin dalla cura estrema che Muti ha riversato nel Preludio, imprimendo alla partitura la giusta ‘tinta’ per dirla con Verdi, il precipuo colore. E poi quanti dettagli, quante finezze. Citare singoli passaggi vorrebbe dire far torto a tutti quegli altri che per ragioni di spazio non si potrebbero enucleare ed elencare. Per dire: il complesso in palcoscenico ammantato di una sonorità fantasmatica in dialogo con l’orchestra, i giochi antifonici e una miriade di altri dettagli ancora. Insomma Muti ha governato con mano salda l’intero spettacolo, ‘tenendo’ come si sul dire il palcoscenico (perfetta simbiosi tra voci e strumenti) come rarissimamente accade. Insomma, un ammiratissimo lavoro di cesello quello compiuto da Muti, su una partitura di soverchia bellezza costellata da una miniera di preziosità a fare pendant allo scandaglio psicologico dei personaggi.
Ed ora le voci. Al tenore Piero Pretti, spesso presente al Regio, il ruolo di Riccardo, conte di Warwick. La sua certo è una presenza di rilievo, vocalità appropriata al ruolo di innamorato, veemenza quando occorre e innegabile capacità di trascolorare entro i vari atteggiamenti espressivi. Canta con slancio «La rivedrò nell’estasi» ed ha restituito al meglio la complessità del personaggio. Da rilevare una dizione davvero eccellente, tale da non far perdere nemmeno una sola parola del libretto. Gli ha tenuto testa validamente Luca Micheletti che fu protagonista dell’ultimo Don Giovanni al debutto nel ruolo del rivale Renato, sposo di Amelia, nonostante un piccolo ‘incidente’ vocale in apertura di serata e nonostante le non buone condizioni fisiche, come lo stesso sovrintendente ha segnalato, salendo sul palco in apertura del second’atto. Di fatto il pubblico ha mostrato di apprezzarne l’interpretazione.
Sul versante femminile il giovane soprano Lidia Fridman ha dato voce alla protagonista Amelia, disimpegnando con apprezzabile espressività la parte vocalmente impervia che il suo personaggio comporta, pur con una voce dalla timbratura non priva di asprezze e con passaggi di registro talora problematici. Deve poi ancora lavorare parecchio sulla dizione, dacché spesso risulta poco comprensibile quanto canta. Ha regalato emozioni specie nell’aria «Morrò, ma prima in grazia» affrontata con pathos. Ha convinto solo in parte il mezzosoprano Alla Pozniak (avremmo desiderato maggior afflato in «Re dell’abisso») nel ruolo inquietante dell’ambivalente indovina Ulrica, quasi una sorta di Azucena minore cui spetta predire la morte al protagonista per mano di un amico. Alcuni sbalzi di registro e qualche défaillance sul piano dell’intonazione hanno incrinato la sua interpretazione, caratterizzata inoltre da una certa disomogeneità tra i registri, quello acuto, sicuro e valido, meno quello medio grave. Davvero ottima la prova di Damiana Mizzi nel ruolo ‘mozartiano’ del paggio Oscar, che comporta una parte come suol dirsi en travesti. La Mizzi ha presenza scenica, vocalità frizzante, dizione chiara, verve, precisione ritmica infallibile e molta agilità (e non solo vocale), insomma tutto quanto occorre per additarla quale elemento davvero valido entro il cast. Allineati su un buon livello generale i comprimari il baritono Sergio Vitale (Silvano), il basso Daniel Giulianini (Samuel), il basso Luca Dall’Amico (Tom) e il tenore Riccardo Rados (Un giudice e Un servitore di Amelia).
Pulita, lineare e non invasiva la regia di Andrea De Rosa: insomma funzionale alla vicenda. Una regia volta a restituire il plot in una cornice correttamente tradizionale. Muove bene i personaggi (grazie ai sapienti movimenti coreografici di Alessio Maria Romano) specie nelle scene d’insieme fin dall’apertura.
Molto efficaci le pur tradizionali scene di Nicolas Bovey, ibridate dalle ottime luci di Pasquale Mari, e fascinosi i costumi, ricchi ed eleganti, di Ilaria Ariemme dalle molteplici sfumature cromatiche. Appena un poco incongruente, dal punto di vista stilistico, l’abituro dell’indovina, che appare moderno, dando peraltro un significativo ‘stacco’. E dunque quegli elementi geometrici che si abbassano dal soffitto spandendo luce livida e cupa, e questo va bene, ma in contrasto con i lampadari ed i candelieri del palazzo. Molto efficace la caratterizzazione dell’indovina, , attorniata da sei mimi che poi le si abbarbicano, nero vestiti e resi plasticamente quasi a restituire un’immagine mitologica, forse non immemore del Laocoonte.
Da ultimo è da registrare l’ottima performance del coro istruito dal colto ed esperto Ulisse Trabacchin, il cui apporto è fondamentale in quest’opera (di stupenda resa il celeberrimo passo «E che baccano sul caso strano e che commenti per la città»). Consensi calorosissimi per Muti a fine serata, applausi di fatto convinti per l’intero cast, con punte speciali per Pretti e la Mizzi, apprezzate scene e regia. Una serata della quale conserveremo a lungo un emozionante ricordo, merita ribadirlo, soprattutto per l’indicibile lavoro di concertazione compiuto da Muti