di Gianluigi Mattietti
Dopo Music for Matera di Georg Friedrich Haas, ampio progetto che aveva animato le strade della capitale europea della cultura nel 2019, la città dei sassi si è rivelata ancora sensibile alla musica contemporanea. In un concerto nella grande sala del Museo Ridola (organizzato dall’Associazione ARTEría), un pubblico curioso e numeroso ha potuto ascoltare quattro nuove composizioni, che hanno offerto un interessante spaccato delle tendenze performative, più recenti, curiose e divertenti, nel campo della musica contemporanea.
Si trattava di partiture commissionate a quattro compositori, selezionati da una giuria internazionale (della quale facevano parte, tra gli altri, Vinko Globokar, Mauro Lanza e Tim Parkinson), ispirate a una poesia di Raffaele Giura Longo (celebre politico e storico lucano, che fu anche deputato e senatore della Repubblica Italiana a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta), destinate ad un organico di sei strumenti (flauto, sax, trombone, violino, violoncello) ed eseguite dall’Ensemble Concavo&Convesso, nel quale suonavano figure del calibro di Michele Lomuto (trombonista che è stato un punto di riferimento per molti compositori italiani negli anni ’80, a partire da Berio per la sua Sequenza V), della percussionista Françoise Rivalland, del sassofonista Pierre-Stéphane Meugé, che è anche una delle anime dell’Ensemble Contrechamps. I quattro giovani compositori hanno tratto spunti diversi dalla Ballata della Vucchiara (questo il titolo della poesia), una specie di rievocazione tenera e ironica della città di Matera, dei suoi sassi, delle sue chiese, grotte, santi, superstizioni, cibi, che hanno stimolato la fantasia degli autori, ma producendo esiti musicali molto diversi. L’unico lavoro “tradizionale”, nel senso che utilizzava tecniche strumentali sofisticate ma non di tipo gestuale, era Alveari d’ombra di Matteo Tundo. Il compositore lucano (nato a Potenza, chitarrista di formazione, allievo di Giorgio Colombo Taccani, Nadir Vassena, Salvatore Sciarrino, Yan Maresz, Klaus Lang) ha creato una trama strumentale densa, microtonale, con sezioni distinte, ma strettamente concatenate, come favi di un alveare, e con emergenze dal carattere po’ jazzy e un po’ improvvisatorio, soprattutto nel sax e nella parte del cimbalom (suonato con diversi battenti). Una trama che via via si trasformava con sonorità più secche, staccate, appuntite, lasciando solo al trombone dipanare una linea fatta di note lunghe.
Gli altri tre pezzi offrivano una generosa antologia delle azioni richieste oggi agli strumentisti-preformer, e degli oggetti sonori che vengono utilizzati in un pezzo per ensemble. Geometrie della terra di Maria Teresa Treccozzi (allieva di Gabriele Manca e Ivan Fedele, all’Accademia di Santa Cecilia, quindi di Wolfgang Rihm e di Arnulf Hermmann, in Germania) corrispondeva bene alla sua poetica musicale imperniata sul gesto, sull’azione che produce il suono, sui rumori che provengono dalla fonosfera quotidiana: il testo della poesia veniva recitato dagli strumentisti, spezzettato in fonemi, ridotto a suoni soffiati, a lamenti, ma poi raggrumato in forme polifoniche ritmate, che avevano qualcosa di primitivo, declamato con voce infantile, picchettato con un ritmo frenetico, intrecciato con linee che ricordavano un cantus planus e con un antico canto lucano (registrato da Ernesto de Martino), riprodotto dagli altoparlanti. Durante queste “azioni vocali” gli strumentisti si disponevano introno a un tavolo per suonare vari oggetti, ciotole, biglie, chucchiai e campanelli, cantavano e sillabavano dentro agli strumenti, generavano una esilarante trama di sbuffi, grugniti e gorgoglii.
Ricca di spunti gestuali ed elementi teatrali, ma formalmente più compatta, appariva La Ballata di Leah Reid, che partiva dalla struttura formale della poesia, dai suoni ritmi, rime, allitterazioni, e da una analisi spettrale di quel testo recitato, per ricavarne materiali strumentali. Questi venivano poi miscelati con elementi rumoristici, melodici, e vocali, e chiamavano tutti gli interpreti non solo a suonare i rispettivi strumenti, ma anche a recitare e sussurrare il testo (ogni esecutore aveva un rigo musicale per i vari tipi di vocalizzazione, sopra quello del proprio strumento), sillabandolo insieme a vari effetti pulsanti, in una texture che si evolveva in continuazione. La compositrice americana, che parte sempre dal timbro per modellare nuovi paesaggi sonori, affidava alla percussionista anche strumenti insoliti come lo zarb, un secchio di plastica riempito con acqua, una tazza, oltra a una bandiera bianca da sventolare nei momenti topici della composizione.
Come una vera e propria pièce, con spunti di teatro partecipativo, era concepito infine Honey for Lello dell’inglese Cameron Graham, che partiva da una strofa della poesia, quella che si riferiva ai «Santi Medici» Cosma e Damiano, con l’esplicito intento di «poeticizzare e teatralizzare lo spirito della tradizionale vita domestica e sociale» che si era sviluppata intorno a questi due santi: l’antica pratica di preparare pozioni miracolose diventava così il focus della composizione, e alcuni degli interpreti, a turno, durante l’esecuzione miscelavano miele ed estratti di erbe varie, preparando delle bevande “medicamentose” che venivano offerte al pubblico. Seguendo sulla partitura una notazione per campi, che corrispondeva ai gesti esecutivi, gli interpreti dovevano parlare, cantare, “canticchiare”, e ovviamente manipolare vari oggetti (con microfoni per amplificarne il suono): coperchi di latta, lattine, ventose, sacchetti di carta e di plastica, strumenti giocattolo, una tanica, un registratore a cassette, un flauto a becco, un tin whistle. Il lavoro era suddiviso in quattro movimenti, quasi quattro “atti”, in ciascuno dei quali gli interpreti disponevano in modo diverso i tavoli sulla scena e modificavano il proprio strumentario “pescando” gli oggetti-strumento da casse poste sul proscenio, durante cambi di scena che sembravano incidenti di percorso. Insomma, tutto scorreva come un insieme, giocoso e caotico, di eventi musicali, all’insegna del low-fi, come un ribollire di suoni che sembrava mimare quello delle pozioni in un pentolone.