Il festival di Lucerna sembra sempre più sensibile al teatro musicale, in tutte le sue forme, declinazioni, periodi storici, dimostrandosi capace di intercettare l’evoluzione del gusti musicali e le tendenze della musica contemporanea, che mirano a mettere in risalto gli aspetti gestuali e performativi dell’esecuzione musicale.
Tre esempi sono stati illuminanti in quest’ultima edizione del festival, oltre che strettamente legati al suo fil rouge: un festival “Crazy” che intendeva esplorare formati di concerto insoliti, lavori scandalosi, o ispirati da fantasie estreme, o comunque fuori dalla norma. Anomala era ad esempio la Partenope di Händel, presentata nel 1730 al King’s Theatre: un’opera divertente, frizzante, che seguiva però la struttura dell’opera seria, con una trama assurda, che prevedeva non solo travestimenti e scambi di identità, ma anche scambi di genere: a contendersi i favori della bella regina Partenope, c’erano infatti quattro spasimanti, tra i quali Arsace, che aveva abbandonato per lei la sua sposa Rosmira, ed Eurimene, che altri non era che Rosimina travestita da nobile armeno. Le dispute, tra toni patetici e minacce di guerra, culminavano in una disfida tra Eurimene e Arsace, con l’astuta richiesta di quest’ultimo che il duello dovesse avvenire a petto nudo, inducendo così Eurimene a svelare la sua vera identità, con un colpo di scena che scioglieva l’inestricabile trama. La produzione semiscenica di Sophie Daneman coglieva bene la dimensione giocosa, folle della vicenda, su un palcoscenico che assomigliava a una scacchiera, con grandi dadi e dei guantoni da boxe per il duello finale tra i due sposi. Partitura sottoposta a vari tagli ma superbamente diretta da William Christie che con Les Arts Florissants, trovava sempre nuovi colori e umori per descrivere le diverse scene, da quelle guerresche a quelle oniriche. I giovani cantanti, tutti provenienti dal vivaio del Jardin des Voix, dimostravano un’ottima padronanza dello stile barocco, ma con qualità vocali assai diverse. Una vera rivelazione è stato il controtenore inglese Hugh Cutting nei panni di Arsace, forse il personaggio più interessante dell’opera per i suoi ondeggiamenti di umore e di amori, espressi sempre con un fraseggio morbido, un bel colore vocale, grande freschezza e facilità sulle note acute. Bravi anche l’altro controtenore Alberto Miguélez Rouco (Armindo), molto espressivo, anche se non sempre omogeneo nell’emissione, il tenore Jacob Lawrence (Emilio), sicuro e preciso nei passaggi di agilità e molto bravo a caratterizzare il guerriero arrogante. Meno convincenti le voci femminili: Partenope era il soprano portoghese Ana Vieira Leite, dotata di una bella voce ambrata, ma malcerta nelle agilità; La Rosmira/Eurimene del mezzosoprano Helen Charlston era invece molto precisa musicalmente, ma con poca voce.
Nel calderone “Crazy” rientravano anche pezzi classici, come le quattro sinfonie di Schumann (elettrizzante l’esecuzione delle prime due offerta dalla direttrice lituana Mirga Gražinytė-Tyla, tornata a Lucerna dopo il suo debutto nel 2016), e concerti-scenici come “Bye-Bye Beethoven” ideato da Patricia Kopatchinskaja, che combinava frammenti da Bach a Cage, da Haydn a Kurtág, con il concerto per violino di Beethoven: lei si agitava come un’indemoniata, duettando con il timpanista in primo piano, circondata dagli orchestrali che suonavano in piedi, esagerando contrasti e dissonanze, quasi fosse una sciamana capace di scatenare le forze orchestrali in un rito tribale… un collage folle, ma confuso, farraginoso, che dopo l’iniziale stupore risultava anche noioso. Un esercizio di follia è stato anche l’allestimento di Staatstheater di Kagel, coprodotto con il Luzerner Theater, uno degli eventi clou del festival. La regista Lydia Steier ha messo in scena quest’opera che alla sua prima, ad Amburgo nel 1971, suscitò grande scandalo, tanto da richiedere l’intervento della polizia. Si tratta di un collage che gioca sui cliché del teatro d’opera, senza una trama e nemmeno una chiara suddivisione dei ruoli: la partitura riporta centinaia di azioni individuali, descritte minuziosamente con espressioni facciali e movimenti, come un kit di montaggio che chiama in causa cantanti, attori, ballerini, e che va assemblato liberamente, ogni volta in maniera diversa. Lo spettacolo di Lucerna si articolava in tre parti: nella prima, esilarante anche se praticamente priva di musica, si vedevano proiettate sullo schermo numerose scenette comiche, laconiche, deliziosamente kitsch, trasmesse da tre container distribuiti per la città di Lucerna; la seconda parte era popolata da un’infinità di figure teatrali e operistiche (un Lohengrin, un Amleto, eroine barocche con arie di coloratura, una Carmen interpretata da un uomo, una madonna con i seni scoperti che spruzzavano latte, ecc.) che si incontravano e scontravano sul palcoscenico (alla fine un drammaturgo spiegava al pubblico cos’è il “teatro”, usando i contenuti di Wikipedia in una presentazione con PowerPoint); nella terza tutti i personaggi uscivano dal teatro, si avviavano in processione verso la vicina chiesa francescana, e lì si lanciavano in un vero e proprio baccanale, un’orgia folle, dove la Regina del Cielo festeggiava insieme a Satana. Bravi tutti gli interpreti, e anche coraggiosi ad accettare questa sfida, così come il direttore Stefan Schreiber a coordinare questa insolita baraonda. Ma era una festa dell’immaginazione che sapeva di antico: la spinta anti-borghese di quest’opera, la critica feroce mossa da Kagel contro il tradizionalismo dei teatri statali negli anni ’70, non scandalizzava, semmai incuriosiva; e anche le immagini blasfeme, le irrisioni musicali più feroci, gli effetti rumoristici, avevano perso la furia iconoclasta. Facevano quasi tenerezza.