di Alessandro Solbiati
Più volte, negli ultimi tempi, mi è stato chiesto come mai, dopo aver scritto per trent’anni molta musica strumentale e vocale affermando ripetutamente e con convinzione che non mi sarei mai occupato di teatro musicale, nel giro di tre anni io abbia composto non una, ma due opere, la prima, Il carro e i canti, commissione del Teatro Verdi di Trieste per la stagione 2008-2009 e la seconda, questa mia amatissima Leggenda, commissione del Teatro Regio di Torino per la stagione 2010-2011.
Vi sono due ragioni, una strettamente musicale ed una extra-musicale.
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Ma prima di esporre tali ragioni, va risistemato l’ordine stesso delle due opere, non per pura esattezza cronologica, ma proprio in relazione alle due ragioni di cui sopra: la data della loro messa in scena è infatti l’inverso di quella di ideazione.
Il progetto per un’opera sulla Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij era in me da molti anni, ma solo nel luglio 2007 ebbi il coraggio di proporlo, trovando nell’amico Gianandrea Noseda un’accoglienza immediatamente calorosa di cui lo ringrazierò per sempre, nel corso di un’indimenticabile telefonata fatta da un taxi. Ricordo che il mio primo pensiero, riappendendo, fu: ma è sempre così facile proporre un’opera in un teatro, e non in un teatro qualsiasi ma al Regio di Torino? In realtà la risposta è no, non è sempre così facile. Bisogna trovare sulla propria strada un musicista generoso e appassionato come Gianandrea, quantomeno.
Ero nel pieno delle mie riflessioni dostoevskijane quando, a fine gennaio 2008, al termine di una bella esecuzione di un mio brano sinfonico da parte dell’Orchestra del Teatro di Trieste, il Direttore Artistico mi propose un po’ a bruciapelo la commissione di un’opera “da mezza serata”,
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cioè della durata di 50′ circa, dandomi però tempi ristrettissimi: dalla prima proposta di quella sera alla messa in scena dell’opera, passarono infatti solo quattordici mesi. Ringrazierò sempre anche quell’occasione offertami: Il carro e i canti (non a caso basata anch’essa, per mia scelta, su un’opera letteraria russa, Il festino in tempo di peste, di Alexander Puskin) ha avuto una splendida accoglienza, a Trieste, ma soprattutto, per quanto mi riguarda, ha permesso a me, compositore abbastanza esperto ma del tutto esordiente in campo teatrale, di sperimentare e verificare pregi e difetti di una vasta serie di modalità sceniche, narrative, vocali e orchestrali. Il carro e i canti ha costituito un insuperabile terreno di prova in vista della più ampia e complessa opera dostoevskijana.
Al termine delle esecuzioni triestine, mi buttai a capofitto nella costruzione del testo per Leggenda: esso, nella sua impalcatura fondamentale, fu pronto a fine estate del 2009.
La stesura della partitura incominciò solo molto più tardi, a metà maggio 2010, ed è terminata, dopo un lavoro che ha meravigliosamente coinvolto ogni mia energia e ogni ora del giorno, il 22 marzo 2011.
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Ritorno ora alle due ragioni di cui parlavo. Dapprima, la ragione musicale.
Fin dai miei esordi compositivi, alla fine degli anni ’70, e poi via via più consapevolmente, ho perseguito una certa chiarezza musicale, la nettezza del primo impatto sonoro, cioè l’evidenza della figura musicale e dei suoi percorsi di evoluzione, sviluppo, trasformazione.
La figura è la natura stessa, il carattere, la fisionomia di un evento sonoro, ciò che ce lo rende in qualche modo decodificabile ed anche descrivibile, in un certo senso “comprensibile”. Questo desiderio di evidenza non doveva però mai rinunciare ad un’altra componente da me sentita come essenziale, cioè la complessità. Ho sempre pensato che la migliore musica europea, in ogni epoca, sia quella che trova un punto di equilibrio tra chiarezza e complessità, e che permette quindi differenti livelli di ascolto. Si pensi al mio amato Brahms: ci si può “accontentare” dell’emozione proveniente dalla pura bellezza dei temi o si può andare più a fondo e gustare la complessità delle sue strutture compositive, che lasciano però inalterato il primo livello di fruizione.
Questa mia esigenza di “evidenza complessa” ha sempre più coinvolto l’intera forma musicale: ma una musica il cui gesto sia ben identificabile nel suo immediato apparire quanto nel suo successivo evolvere è di fatto una musica in qualche modo “narrativa”, sia pur astrattamente.
La “narratività” della musica, la sua possibilità di dipanare i miei percorsi immaginativi in modo riconoscibile e memorizzabile, ma mai totalmente esplicito, è divenuta sempre più importante, per me, il mio vero centro d’interesse. Un certo numero di miei lavori, tutti composti, almeno in versione definitiva, tra il 2005 e il 2010, mi sembrano aver raggiunto il livello da me desiderato di “narratività complessa”: parlo di brani per ensemble come Sinfonia da camera o Vivente e di brani orchestrali come Sinfonia, Sinfonia seconda e Sinfonia terza.
Ma a questo punto non ho potuto esimermi da una riflessione:
se ritenevo di aver raggiunto un buon livello di equilibrio tra chiarezza e complessità, nel singolo istante e nella forma, così da saper astrattamente “narrare” i percorsi delle mie energie interiori, perché non avrei dovuto mettere tale capacità al servizio di una narratività oggettivata, proiettata su una scena?
Naturalmente era possibile anche chiedersi perché avrei dovuto per forza farlo, data una certa mia diffidenza verso il teatro musicale, percepito come meno “assoluto” della pura espressione musicale.
Ma qui sovviene la seconda ragione, quella extra-musicale.
Raggiunti e superati i miei cinquant’anni ho sentito l’esigenza di dire con forza una mia “Weltanschaung”, di mettere in scena il mio punto di vista fortemente critico contro la sempre più forte spinta della società occidentale verso la superficialità, l’esteriorità colorata e stupida, verso l’aggiramento delle domande profonde e vere dell’esistenza, preludio, tutto questo, all’obnubilamento delle coscienze e al loro controllo.
Più di quindici anni fa nel mio più lungo e composito lavoro sinfonico-vocale (X Elegia) ho utilizzato l’ultima delle Duineser Elegien in cui Rilke rappresenta la società attuale (del 1922…) come un grande luna park le cui luci e i cui rumori anestetizzano ogni domanda esistenziale.
La prima scelta da me fatta di un testo teatrale, quello di Puskin, vede in scena in un unico luogo chiuso cinque personaggi che rimuovono festeggiando il pericolo incombente di un’epidemia di peste, metafora trasparente di un uomo occidentale che cerca sempre più di neutralizzare, di escludere da sè di-vertendosi ogni dolorosa coscienza della condizione umana, quella “cosmica” quanto quella terribilmente reale dei miliardi di affamati ed indigenti intorno a noi.
In questo senso, con la Leggenda del Grande Inquisitore si tocca una vetta di letteratura e significato difficilmente superabile e piena di differenti implicazioni. Io mi sono concentrato su due di queste, tralasciandone altre, quale ad esempio l’interrogativo sulla ragione della sofferenza umana posto nel “levare” della Leggenda e che apre la via alla riflessione sulla libertà dell’uomo.
L’Inquisitore è l’incarnazione esatta del potere nella sua forma più inquietante e purtroppo più contemporanea.
Non cioè il potere vistoso ed esplicito, quello delle dittature di ogni epoca che, per dolorose ed infami che siano, hanno spesso l’indesiderato (per loro) effetto collaterale di suscitare una profonda coscienza di rivolta, bensì il potere che più sottilmente irretisce ed annulla le coscienze e che tocca il suo capolavoro nel far credere che l’appiattimento del pensiero sia il bene dell’uomo (“noi li convinceremo che son solo poveri bimbi, e che la felicità infantile è la più dolce” dice l’Inquisitore nel suo monologo). Da tale potere è molto più difficile liberarsi perché confonde la nozione stessa di libertà, annullando ogni consapevolezza: come non pensare al sottile potere mediatico in cui siamo costantemente immersi in ogni attimo e per ogni aspetto della nostra esistenza, così abile nell’anestetizzare ogni profonda tensione?
Ecco perché ritengo che un’unica linea colleghi le mie tre successive scelte della X Elegia Duinese di Rilke, del Festino in tempo di peste di Puskin e della Leggenda dostoevskijana.
Ma a differenza che nelle altre due qui esiste un’invincibile, commovente alternativa, e non è necessario essere credenti per rimanerne emozionati: il silenzioso abbraccio finale del “presunto Cristo incarcerato” all’Inquisitore, cioè a colui che lo ha appena nuovamente condannato a morte in quanto reo di aver innalzato l’uomo alla dignità suprema della libertà, cioè la contrapposizione del valore supremo, invincibile e indiscutibile dell’Amore all’agghiacciante ed amaro cinismo dell’Inquisitore, quell’abbraccio è una risposta definitiva e suggella anche in me il percorso che mi ha condotto in quasi vent’anni da X Elegia a Il carro e i canti e infine a Leggenda.
Qualche parola, ora, sul lavoro da me svolto, sul piano sia testuale sia musicale.
Innanzitutto: personalmente non riesco nemmeno ad immaginare di poter lavorare con un librettista, perché ho bisogno di controllare io stesso nel dettaglio fino all’ultimo momento la singola parola utilizzata, ed anche perché parola e suono, significato ed immagine musicale in me si generano a vicenda, in un rapporto di nutrimento reciproco valido per la più piccola microstruttura quanto per l’architettura formale complessiva.
Ma mentre nel caso di Puskin si è trattato semplicemente di agire su una traduzione letterale, da me richiesta espressamente priva di ogni “bellezza letteraria” per poterla asciugare al massimo (le parole per me devono essere nel minor numero possibile), nel caso di Leggenda il testo andava totalmente costruito, partendo da un brano che è tutto meno che teatrale: in fondo esso è costituito per lo più dal lungo monologo dell’Inquisitore all’interno del carcere.
Poi ho avvertito due simmetrie che mi hanno permesso di intuire altrettante architetture possibili, una scenica e una formale, ovviamente intrecciate l’una all’altra.
Dal punto di vista scenico, il racconto vede susseguirsi e, nelle mie scelte, sommarsi, tre coppie di personaggi in perfetta corrispondenza. Ad Ivan e Alësa che si fronteggiano nel dialogo che conduce al racconto, subentrano il “presunto Cristo” e l’Inquisitore, che appaiono l’uno dopo l’altro tra la folla di Siviglia e si contrappongono poi nel carcere notturno.
Ma durante tale incontro l’Inquisitore evoca le evangeliche tentazioni del deserto, con lo Spirito del Non Essere di fronte a Cristo. Tre coppie che si sommano via via nel corso dell’opera, aprendo uno spazio scenico sempre più profondo, che è anche “spazio di tempi e significati”: Ivan e Alësa, sul proscenio, sono la contemporaneità, l’Inquisitore e il Cristo sivigliano il XVI secolo, lo Spirito del Non Essere e Cristo l’inizio dell’era cristiana. E dal punto di vista dei “significati”, è ovvio che Ivan sta ad Alësa come l’Inquisitore sta al Cristo sivigliano e come lo Spirito del Non Essere sta al Cristo dei Vangeli.
Questa simmetria spaziale è in realtà essa stessa anche formale, perché si rivela a poco a poco nel corso dell’opera, sfondando lo spazio in una sorta di catena di significati via via sovrapposti.
A tutto ciò si aggiunge la seconda simmetria, una simmetria di successivi “spessori” scenici che vengono a suggerire un’architettura sonora e musicale per l’intera opera.
Si inizia infatti da un ambiente di media vastità nel dialogo tra i due fratelli, ma ci si apre improvvisamente all’affollato spazio sivigliano. Ci si chiude nell’angustia oscura del carcere e ci si spalanca all’evocazione dell’infinito vuoto desertico.
Quest’alternanza ha generato di colpo nella mia mente la struttura complessiva dell’opera:
1 – un Prologo strumentale che sostituisce i terribili esempi di violenza sui bambini che Ivan fa ad Alësa, mantenendone il clima di tensione crescente.
2 – quattro scene secondo una struttura ABA’B’, cioè A, il proscenio con i fratelli, B, il vasto spazio sivigliano al centro del palcoscenico, A’, il chiudersi claustrofobico del carcere attorno ad Inquisitore ed “inquisito”, B’, l’aprirsi estremo al deserto sul fondo della scena.
3 – un Epilogo, cioè il lentissimo allontanarsi di Cristo verso il buio di Siviglia
La lentezza assoluta dell’abbraccio e dell’uscita sono dovuto al loro enorme peso specifico: con questi due gesti, il presunto Cristo risponde senza parole ad ogni invettiva dell’Inquisitore.
Nel dettaglio, il testo è poi costituito da frammenti ristretti della Leggenda, ma anche da brandelli di frasi da me raccolti in tutti i Fratelli Karamazov e poi via via inseriti.
Quali sono le implicazioni musicali della struttura ABA’B’ indotta nelle scene e negli spazi?
L’opera era stata concepita per le vastità del Regio, poi si è dovuti passare al ben più piccolo (e splendido) Teatro Carignano. Superato un iniziale disappunto, è stato proprio tale riduzione a suggerirmi una spazializzazione del suono che costituisse un corrispettivo musicale e sonoro alle simmetrie sopra citate.
L’orchestra è divisa in due gruppi, l’Orchestra A è in buca, l’Orchestra B in platea: simmetricamente alla scena, al dialogo Ivan-Alësa concorre la sola orchestra in buca, mentre all’allargarsi dello spazio sivigliano (che comporta anche il suono in scena del coro e di due strumenti, fisarmonica e chitarra) il suono si diffonde simmetricamente anche all’orchestra in platea. Chiudendosi nel carcere il suono si riduce a poco più di un quartetto di archi soli “chiusi” in buca, mentre al deserto corrisponde il massimo dell’espansione sonora, con l’utilizzo, oltre che delle due orchestre, anche della fisarmonica posta ora in alto, in uno dei palchi di proscenio. In altri di tali palchi, comunque, si trovano fin dall’inizio le percussioni e la celesta, a completare una spazializzazione “naturale”, senza amplificazioni, del suono.
Un’ultima “corrispondenza”: se nel deserto è il coro a riverberare come voce stessa del deserto lo Spirito del Non Essere, nel carcere l’Inquisitore è riverberato e reso polifonico da un sestetto vocale.
Voglio concludere questo mio scritto con una serie sentitissima di ringraziamenti, innanzitutto a Gianandrea Noseda che ha patrocinato il progetto, a Walter Vergnano per avermi dato fiducia, al compianto Roberto Bosio per aver dato una prima spinta organizzativa poi continuata da Alessandro Galoppini, ad Adeline de Bettignies prima e a Marina Pantano poi, sempre vicinissime. Ma vi è un affettuoso ringraziamento del tutto particolare, ed è a Stefano Poda, che Noseda ha intuito essere il regista “giusto” per me, e con il quale composizione dell’opera, progettazione scenica ed amicizia sono procedute parallelamente dall’inizio alla fine.
Alessandro Solbiati
Courtesy Edizioni Suvini Zerboni
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