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Probabilmente sarà l’ultima tournée italiana dello lo storico quartetto, che annuncia lo scioglimento nel 2013: lo abbiamo ascoltato al Bologna Festival insieme al pianista francese
di Andrea Bellini
Si attacca con uno degli ultimi capolavori del Grande di Bonn, il Quartetto in la minore op. 132 composto nel 1825, due anni prima lasciare il suolo terreno, composizione che ha nel Terzo Movimento sicuramente il suo nucleo centrale, una specie di baricentro attorno a cui ruota tutto il resto. Il Canto sacro di Ringraziamento di un convalescente alla Divinità, in modo lidio, attraverso l’alternanza tra un momento lirico di straordinaria straordinaria emotività (Molto Adagio) ed la riproposizione per due volte di un Andante più fresco, quasi rossiniano per inventiva melodica che il primo violino di Martin Beaver infiorisce come fosse un concerto di Vivaldi, sembra voglia rappresentare un rapido mutare dei sentimenti; come e più dell’Adagio della Nona Sinfonia, Beethoven riesce a creare un clima di sospensione, soprattutto nella parte centrale, dove il modo lidio è rappresentato più come una fluttuazione tra le tonalità di do maggiore e fa maggiore, a conferma dell’interesse del Maestro per la polifonia italiana del 4-500, soprattutto i modi liturgici della musica di Palestrina. E’ un clima estatico, trascendentale, come se, dopo una vita così tormentata e per il suo agire a volte irresponsabile dovuto in parte anche alla sua condizione di malato cronico, ci fosse una richiesta di pace interiore, la “guarigione” dello spirito, più che del corpo, alla ricerca della contemplazione di un divino laico, la fine della sofferenza attraverso l’ascesi. E i quattro rendono al meglio tutto questo, sia nell’inizio con quegli accordi quasi immobili e con la sacralità di un corale bachiano staccato “alla breve”, sia nel lungo maestoso fugato finale, un commosso ma sereno addio alla vita, “Con sincero sentimento”, un Empfindung che è al tempo stesso manifesto del Romanticismo e speranza interiore dell’Uomo che sente prossima la fine.
Fine che poi non arriva non solo grazie alla sospensione della cadenza finale che non “chiude”, ma che, come se il vecchio leone si senta ferito ma non domo, ecco che il Quartetto inizia con un nuovo ardore il Quarto movimento, come a voler dire “ehi ragazzi, stavo scherzando, non me ne vado, non ora almeno!”. Il quarto tempo entra nell’ultimo come nel Finale della Quinta Sinfonia, che apre quasi con un recitativo operistico e chiude come fosse una sonata a tre, con il violoncello (eccellente prova di Clive Greensmith) che disegna bassi potenti e precisi, mentre la viola ed il secondo violino vanno a contrappuntare il primo violino, in un finale che mostra come le lezioni di canto ricevute in gioventù, in particolare da Salieri, hanno dato alla fine uno straordinario frutto nella maturità avanzata. Un finale teatrale, con gli archi che cantano come forse in nessun’altra composizione di Ludwig, e che mostra anche la maturità compositiva, soprattutto nelle parti della viola, così cara ad Haydn, “padre” spirituale del quartetto d’archi, che sarebbe piaciuta certamente anche a Mozart. La varietà e l’ormai congedato schema che contraddistingueva la Sonata fino ad ora è che Beethoven ormai ha scavalcato consuetudini e mescola generi, tanto che il secondo movimento è a tratti uno scherzo e a volte ha quasi un andamento di pastorale, confermato dalla ricca tavolozza timbrica di Beaver che fa suonare il suo prezioso Stradivari come fosse un oboe!
Dopo la necessaria pausa anche per stemperare le forti emozioni che la musica di Beethoven ha suscitato, ecco che l’ingresso del pianoforte in Brahms crea un momento di sincero spaesamento; la presenza dello strumento a tastiera dopo il suono mistico e a tratti quasi siderale del TSQ viene vissuto all’inizio quasi come un’intrusione, un’ingerenza in mezzo a tanta grazia, quasi come se i quattro archi da una parte e il piano dall’altra fossero due entità sonoramente distinte. Sicuramente il pianista canadese è conscio di questo, infatti più che aggiungere, toglie, ottenendo un suono asciutto quasi suonasse un fortepiano fine ‘700, forse “troppo” asciutto, realizzato con un uso molto attento del pedale di risonanza onde evitare aloni sonori, ed un tocco cristallino, sicuramente che denota grande tecnica e padronanza del mezzo, ma che forse è buono per Couperin e non per Brahms!
Ne sono ben consci anche i quattro archi, che alla guida dei loro preziosi e potenti strumenti (il cosiddetto Quartetto di Paganini, tutti ad opera dello Stradivari), gradatamente incrementano il loro volume di suono in modo da poter offrire più spazio ai volumi del pianoforte, per cui il primo movimento se ne va quasi in sordina, quasi fosse servito ai cinque musicisti ad “aggiustare” l’orecchio e dove il momento più bello arriva poco prima della Coda quando, in un momento solistico senza la tastiera, si instaura nuovamente quel piacere avuto con Beethoven.
D’altronde il pianoforte per Brahms è preponderante in tutti i sensi nella sua produzione complessiva, più di quanto non lo sia stato per Beethoven, con cui condivide l’uso dell’amata tastiera per fini per così dire didattici, strumento d’elezione e sempre in prima linea per delineare i lavori cameristici ed orchestrali. Se guardiamo infatti la sola produzione da camera, vera fucina di idee e banco di prova per quasi tutti i suoi lavori, anche quelli per orchestra, risulta infatti notevolmente sbilanciata verso quelli con pianoforte piuttosto che senza, come se non gli bastassero i soli archi (tre, quattro o cinque poco non importa, tanto è la presenza massiccia del pianoforte); se a questo aggiungiamo le numerose pagine per pianoforte a quattro mani, dalle celeberrime Danze Ungheresi fino alle meno eseguite Variazioni su un Tema di Schumann op.23 o i 16 Valzer op. 39, o questo stesso Quintetto op.34 in fa minore terminato nell’estate del 1864 e presentato per la prima volta da Brahms medesimo in coppia con l’amico e virtuoso Tausig in forma di monumentale Sonata (op.34 bis) o infine i lavori per voce o altro strumento con accompagnamento del pianoforte, si capisce come la tastiera abbia accompagnato Johannes fino alla fine. E che Lortie ed il TSQ ci mettano del loro per non far sembrare il Quintetto come un concerto per pianoforte ed orchestra è cosa da non sottovalutare. Come altre sue opere anche il Quintetto risente di una lavorazione laboriosa, cominciata due anni prima nel 1862 e di cui Brahms non fu mai totalmente soddisfatto. Del resto fu proprio Clara Schumann, che a Brahms fu notoriamente molto legata, la prima a ventilare il sospetto che la ricchezza delle molte idee tematiche rischiasse di perdersi sul solo piano (“il lavoro è stupendamente grandioso“ scrive, ma lo esorta a modificarlo) e che per la buona riuscita necessitasse di un’altra soluzione fonica. Dopotutto proprio Clara gli aveva dato un’idea giusta, non perseguita però dal maestro, cioè di far divenire tutte quelle “idee” un lavoro per orchestra. Ma la vera orchestra è proprio il pianoforte, dove gli archi puntellano, cesellano, creano timbri diversi (notevole l’episodio nel secondo movimento Andante, un poco adagio dove il violoncello col pizzicato sembra crei delle bolle d’acqua in una vasca!) ed al tempo stesso creano ampie volute melodiche, a testimonianza che tutta l’operazione di rivisitazione promossa da Clara è stata felicemente portata a termine.
Proprio per la ricchezza tematica l’Allegro non troppo iniziale riesce a far passare in secondo piano la costruzione in forma-sonata, tanto vi è la compenetrazione di una frase dentro l’altra, ed in questo c’è molto più della capacità di Bach di variare una forma monotematica, che non la contrapposizione dialettico-drammatica del romanticismo beethoveniano. L’Esposizione infatti occupa quasi la metà di questo primo tempo, ed il breve Sviluppo, che ha in sé materiali differenti, porta velocemente ad una Ripresa che è solo in parte rispettosa di quella “scatola vuota” che è la forma-sonata. Sembra che a Brahms interessino di più gli equilibri, di volume e d’intreccio, che non la forma. E grande spazio merita il violoncello, strumento a cui Brahms dedicherà due splendide Sonate con pianoforte, ad essere protagonista sia nella Coda del Primo Movimento (a tinte più scure che si dipana parzialmente prima in fa maggiore per poi chiudere con un passo di marcia di nuovo in minore) sia nel successivo Andante, a tratti pare un fagotto, tanto è preziosa l’intensità delle lunghe note tenute.
E se la tonalità di la bemolle maggiore dell’Adagio, struggente movimento che ha in sé Beethoven e Schubert assieme, maschera parzialmente il senso di abbandono alla rimembranza o ad un senso d’addio portato dal pizzicato degli archi, nella seconda metà del Quintetto i musicisti danno il meglio di loro stessi.
Fin dall’attacco del dinamico Scherzo in cui sono viola e violoncello a sostenere il ritmo ed il pianoforte funge da contrafforte armonico con velocissime note ribattute, l’ascesi mistica del Poco sostenuto in avvio del Quarto Movimento, con gli accordi del pianoforte a sottolineare un incedere grave e pesante, porta rapidamente al successivo Allegro, che con accessi quasi zingareschi, cancella questa velatura come d’improvviso, riproponendoci il vero volto di Brahms.
È forse proprio nello Scherzo che in apparenza ha un che di minaccioso (non a caso è in do minore, la tonalità della Quinta di Beethoven) e che invece viene resa in modo da essere una danza sfrenata, con un pulsare ritmico quasi un beat moderno, che si realizza tra i musicisti un equilibrio perfetto, a suggello di una serata veramente speciale.
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