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Le opere di due compositori italiani trentenni, Francesca Verunelli e Giovanni Bertelli, sono state allestite a Stoccarda. Saranno riproposte in ottobre alla Biennale Musica di Venezia
di Gianluigi Mattietti
D ue primizie al Theaterhaus di Stoccarda, nel festival Der Sommer in Stuttgart. Nuove opere di due giovani compositori italiani, entrambi trentenni (ed entrambi emigrati a Parigi), Francesca Verunelli – Leone d’argento alla Biennale Musica 2009 – e Giovanni Bertelli. Come contorno pezzi cameristici di Stefano Gervasoni (Nube obbediente) e di Dieter Schnebel (Zwei Arien), un omaggio a Morton Feldman (Pattern in a Chromatic Field), un’ambiziosa performance per cinque gruppi strumentali dell’argentimo Marcelo Toledo, un recital, spassoso e virtuosistico, del chitarrista brasiliano Arhur Kampela.
Frutto del progetto Enparts (European Network of Performing Arts) dell’Unione Europea, le due opere sono state commissionate da Musik der Jarhunderte e dalla Biennale di Venezia, dove verranno riproposte il prossimo 10 ottobre, ed affidate ai Neue Vocalsolisten, affiancati per l’occasione da due valenti percussionisti, Anja Füsti e Pascal Pons. Due esempi di teatro “patologico” e antirealistico, ma tra loro agli antipodi, due concezioni radicalmente diverse del teatro in musica, sia sotto il profilo della struttura drammaturgica (e del testo) sia della musica, due idee che divergevano ancora di più nella fantasiosa lettura registica della finlandese Kriistina Helin (scene e costumi di Lotta Esko, luci di Jan Fedinger).
AMGD di Giovanni Bertelli aveva un impianto narrativo – nel festival è stato eseguito anche Autoritratto, in tre passaggi (2010), scritto per l’Ensemble Ascolta, pensato proprio come uno studio su una possibile narrazione musicale, basato su un fatto autobiografico legato a una sagra di paese – ed era giocato tutto sul registro grottesco, sul gusto per il kitsch e per il trash. Come altre opere recenti – si pensi alla fosca vicenda domestica di Bluthaus di Georg Friedrich Haas, con incesti, omicidi, fantasmi, a quella misteriosa di Thank to my eyes di Oscar Bianchi, costruita sul rapporto tra figlio e padre-padrone, all’opera di Oscar Strasnoy, Geschichte, che raccontava le vicende dell’eccentrica famiglia di Witold Gombrowicz, a Pulapka (la trappola) di Zygmunt Krauze, ispirata alla vita di Franz Kafka e ai suoi difficili rapporti con genitori e sorelle – anche AMGD, «pantonima per 5 cantanti e 2 percussionisti», era una storia di famiglia. Una rappresentazione cinica, a-morale, anche allegramente blasfema, di rituali domestici, con personaggi annoiati, «incosapevolmente ridicoli»: una donna molto religiosa e alcolizzata (il mezzosoprano Truike van der Poel) che sculacciava una bambina (il soprano di coloratura Sarah Maria Sun), il nonno che recitava il rosario (il basso Andreas Fisher), l’uomo (il tenore Martin Nagy) che rientrava in casa stanco e nervoso, con la sua valigetta, e cominciava ad armeggiare col telecomando della televisione. La moglie preparava la cena, e una volta a tavola, durante la preghiera di ringraziamento, il nonno moriva, ma solo la bambina sembrava accorgersene. Questa sequenza di azioni veniva ripetuta cinque volte, con delle varianti, secondo un processo “markoviano”: nella seconda scena per esempio entrava in casa anche un nuovo personaggio, Gaudeaux (il controtenore Daniel Gloger), uomo elegante e cortese che però scena dopo scena rivelava la sua natura sinistra e schizofrenica (nella quarta scena uccideva con una pistolettata la donna e la bambina, e poi anche il nonno); nella terza scena la donna si presentava ubriaca e veniva malmenata dal marito, che poi litigava col nonno; nella quinta l’appartamento appariva all’inizio disabitato. Come rivela il titolo, acronimo di «aesthetica more geometrico demonstrata» (ma anche anagramma con cui i musicisti di qualche secolo fa siglavano i loro lavori e che significava “ad maiorem dei gloriam” – sottolinea il compositore), tutto si basava su uno schema geometrico, sulla mancanza di memoria e sul gioco della ripetizione, su rituali domestici perturbati dall’ingresso di Gaudeaux – «qualcuno come il bambino che gioca a dadi di Eraclito. O il diavolo di Bulgakov (ma Gaudeaux è un po’ più bastardo). O God(ot). O forse qualcuno che passa e dice ciao…».
Bertelli, che si dichiara influenzato dalla lettura del romanzo Infinite Jest di Foster Wallace, ha creato un testo in diverse lingue, come l’inglese e il tedesco, ma ha usato anche dialetti, preghiere in latino, traslitterazioni e soprattutto onomatopee («bla bla bla, du du du, Ah! Eh! Ih! Oh!»). Il compositore veronese, classe 1980, studi di filosofia all’Università, e studi di composizione con Stefano Gervasoni e all’Ircam, condivide con altri compositori come Mauro Lanza e Francesco Filidei il gusto per lo humour nero. Non è un caso che nella musica di AMGD si cogliessero diversi ammiccamenti al Grand Macabre di Ligeti, insieme con una trama di citazioni da Monteverdi e Bach fino agli scampanii e alle figure modali delle Noces di Stravinskij. L’impego di forme chiuse (cabaletta, preghiera, aria col da capo, arioso, corale) contribuiva alla creazione di una partitura eclettica e variopinta, che sfruttava anche diverse tipologie di emissione vocale, e una grande varietà di percussioni (tom-tom, vibraslaps, flexatone, campanacci, crotali, vari tipi di campane, armoniche a bocca, fischietti e anche tubi corrugati e una pistola). Un interruttore in scena aveva anche una precisa funzione teatrale, fungeva da cesura, perché una volta azionato bloccava improvvisamente l’azione (con un repentino cambio di illuminazione) e permetteva di ricominciare il ciclo degli eventi. L’idea drammaturgica era complessivamente interessante, anche se un po’ macchinosa, ma il gioco delle reiterazioni (sia sceniche che musicali) alla lunga diventava noioso. Anche la regia della Helin, che calcava la mano sulle depravazioni dei vari personaggi, perdeva di appeal nelle scene finali. Quella che secondo le intenzioni del compositore doveva essere una tipica famiglia italiana, riunita a recitare il rosario, diventava una famiglia di cowboys e pellirossa, con i volti periodicamente coperti da fotografie che scena dopo scena diventavano sempre più deformi fino a trasformarsi in macchie nere. Per il resto erano gag dal gusto sadico, blasfemo, coprofilo: la bambina si toglieva le mutande e veniva ripetutamente sculacciata dalla mamma e presa a bastonate dal nonno; la donna, che portava un messale appeso tra le cosce, e godeva nello sfogliarlo, defecava in un vaso da notte e poi serviva a tavola le sue stesse feci.
Niente di tutto questo in Serial Sevens di Francesca Verunelli, dove la Helin si è dovuta cimentare con un’opera senza trama, senza personaggi, molto concettuale e poco teatrale. Allora ha scelto di sovrapporre alla musica un video (di Saara Ekström) che mostrava il meticoloso lavoro di un sarto alle prese con una giacca, lavoro ripreso nei minimi dettagli sartoriali, ma inquadrando sempre solo le sue mani, insieme con alcuni elementi da cinema surrealista: un manichino, alcuni canarini svolazzanti, la polvere del gesso. Un video in bianco e nero, proiettato su un grande telo bianco che degradava sul palcoscenico, e che catturava l’attenzione del pubblico, mentre la musica restava un po’ in sottofondo, come fosse la colonna sonora di un documentario. Il titolo dell’opera si riferiva a un test clinico per valutare il grado di memoria e di concentrazione (contare a partire da cento sottraendo serie di sette: 100, 93, 86, 79 ecc.), ma anche alle sette voci chiamate in causa.
La compositrice di Pietrasanta, allieva di Rosario Mirigliano a Firenze, poi di Azio Corghi all’Accademia di Santa Cecilia, corso all’Ircam nel 2008, Leone d’argento alla Biennale di Venezia nel 2010, era alla sua prima esperienza con il teatro musicale. Non ha cercato un testo d’autore, e nemmeno un testo teatrale: «Cercavo un teatro diverso, dove il testo invece di essere messo in musica, potesse risuonare nella musica». E sfogliando alcune riviste di medicina (i genitori della Verunelli sono entrambi medici), si è imbattuta in alcuni testi anonimi, conversazioni di persone che hanno avuto danni irreversibili della memoria, che ha rielaborato (ha decostruito il materiale con un algoritmo dello stesso tipo di quelli utilizzati per modellizzare sistemi naturali di crescita ricorsiva, creando un continuum che conduceva dal senso al nonsenso e viceversa) creando un collage testuale frammentario, un mix di registri dal tragico all’ironico, articolato in quattro scene: «Questi monologhi mostrano come il verbale fallisca in determinate situazioni, come sia impossibile ricostruire un’identità tramite il verbale: è in questo momento limite che la musica è veramente chiamata in gioco». Strenuo il suo tentativo di dare a questa operazione una concretezza drammatica: «Il filo rosso della perdita, dell’urgenza di “vedere” l’intero perduto, e le pieghe di una temporalità che ha perduto la sua consistenza “comune” percorrono questa storia di storie. Ma questi nodi astratti abitano questi testi con una concretezza violenta, urgente, vera. Possono sembrare vagamente prossimi a certo teatro beckettiano, eppure non c’è performance, non c’è finzione, non c’è volontà dimostrativa». Ne è risultato un lavoro raffinato, ben scritto, ma lontano da qualsiasi idea di “Musiktheater”. Si apprezzava la finezza della costruzione armonica, il suo continuo, repentino trascolorare (per dirla con le parole erudite della compositrice: «Si tratta del punto di soglia dove il rapporto tra il tempo armonico e gli stati armonici è alterato in una maniera tale che non sia distrutto ma la sua logica percettiva diventi un’altra. Il transiente risulta in un’irizzazione continua dove il colore, per quanto presente, è concavo, indicibile»); la consequenzialità degli eventi e le sorprendenti metamorfosi dei materiali; la scrittura sempre movimentata, con una parte vocale (e polifonica) virtuosistica, varia, scoppiettante, abbinata a una trama delle percussioni che alternava momenti sospesi, dalle risonanze metalliche, con stacchi violenti che fungevano da cesure («Percussioni come aperture e chiusure di sipario»); l’epilogo nel quale pareva implodere tutto in una dimensione meccanica, artificiale, sottolineata dal suono dei carillon, preparati dalla stessa compositrice, e azionati dai cantanti. Collocati in altro, sopra il grande schermo, e vestiti con tuniche bianche, i sette cantanti avevano un gran daffare anche con altri strumenti, dai diapason (che facevano da pendant con le forbici del sarto) alle armoniche a bocca, ai fischietti: e questo accentuava la dimensione ieratica, e statica, dello spettacolo.
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