In scena al Regio il Singspiel mozartiano. Non convince del tutto la direzione di Christian Arming. Apprezzato il versante scenico e parzialmente il cast
di Attilio Piovano
NON ACCADE TROPPO SPESSO CHE una prima sia suggellata da applausi entusiastici e già nel corso dello spettacolo il pubblico indirizzi ampi consensi a scena aperta ai singoli cantanti. E invece al Regio di Torino venerdì 10 gennaio il primo titolo del 2014 è stato accolto proprio in tal modo. Certo, si sa, il Flauto magico è un tale capolavoro che il successo parrebbe implicito. Di fatto non è così: proprio perché è opera celeberrima ognuno ha una sua idea registica, ognuno ha cantanti e direttori di riferimento e dunque a maggior ragione il successo di pubblico premia la scelta del Regio di avvalersi di una produzione originale del Massimo di Palermo, in realtà completamente rifondata.
Scene e luci di Giovanni Carluccio, lineari, ma poetiche, tradizionali, con pseudo citazioni dalla prima messa in scena del 1791, e dunque funzionali con i dovuti riferimenti all’universo massonico, la piramide, le tre porte e via elencando; così pure i costumi di Nanà Cecchi in linea con quanto occorre: Papageno con tanto di gabbietta di vimini, Astrifiammante come si conviene, idem i genietti, appena un tocco di kitsch per le tre Dame in versione semi dark. Pulita e molto soft la regia di Roberto Andò. Appena qualche piccolo neo. Per dire: la vecchietta che si ‘trasforma’ in giovanissima Papagena, ma quasi non ce ne accorgiamo dacché fugge subito di lato. Apprezzata l’idea (peraltro assai sfruttata e non certo una novità) di far scorrazzare gli artisti in sala con plurime entrate e uscite laterali e scorribande sui praticabili a lato dell’orchestra. Certo si potevano evitare alcune gags un po’ da avanspettacolo come Papageno che abbraccia il direttore facendosi consolare, come pure si poteva evitare di fargli pronunciare con enfasi la parola “Barolo” nel momento in cui apprezza il vino della cantina di Sarastro, ma sono peccati veniali e pur in linea con la tradizione popolare del Singspiel. E ancora: l’antropomorfico serpente iniziale, i genietti sull’immancabile navicella, l’aria del ritratto con una Pamina che se ne viene fuori da una cornice e via dicendo e la gradita presenza di ottimi mimi. Efficace la soluzione adottata per far sparire i cattivi e dunque Regina della Notte, Monostato e Dame assorbiti in una nuvola blu resa con un semplice velo che li avvolge come in un turbine.
Ed ora gli interpreti. Ottima la performance del mattatore Markus Werba (Papageno), vero protagonista assoluto, voce sicura, gran presenza scenica, divertente e magnetico, ha saputo coinvolgere l’intera platea. Non così il Tamino di Giorgio Berrugi, talora in difficoltà, con forzature nel registro superiore, un po’ impacciato. Molto bene Olga Pudova, una Regina della Notte che ha sì avuto qualche esitazione nella prima aria, ma poi si è ampiamente riscatta nell’impervia Der Hölle Rache. Assai apprezzata Maria Grazia Schiavo (Pamina) con belle emissioni (appena qualche deficit nei pianissimi e nei suoni filati). Deludente invece il Monostato di Alexander Kaimbacher costantemente fuori tempo e poco ieratico il Sarastro di Aleksandr Vinogradov. Bene le tre Dame (Talia Or, Alessia Nadim e Eva Vogel), valida Laura Catrani nel ruolo di Papagena. Un plauso alle voci bianche dei tre genietti (Esther Zaglia, Elena Scamuzzi e Giulia Moretto) e così pure allineati su un buon standard Oratore e Sacerdoti.
Da ultimo la direzione: sul podio il pur valido e solitamente apprezzato Christian Arming stavolta ci ha parzialmente deluso. Già l’ouverture è parsa priva di nerbo; soprattutto Arming non è riuscito a conferire quella ieraticità possente, quei tratti gluckiani, ai passi massonici di cui la partitura è disseminata. Discutibili anche certe scelte di metronomo, laddove passaggi intrisi di pathos sono parsi un po’ tirati via ed altri per contro mancavano di verve. L’orchestra ha fatto il possibile, senza tuttavia provocare quelle emozioni e senza riuscire a scatenare quel quid di magnetismo che Die Zauberflöte necessita (i famigerati squilli degli ottoni mancavano del tutto di rotondità). Anche il coro, pur valido come sempre ed ottimamente istruito da Claudio Fenoglio, quanto meno dalla nostra postazione un poco arretrata (e si sa che al Regio talora l’acustica della sala gioca brutti scherzi) pareva mancare di possanza. Sicché ricorderemo questo Flauto soprattutto per il versante scenico e (parzialmente) per il cast. Nove le repliche sino a fine gennaio con una doppia compagnia.
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