In scena al Carlo Felice di Genova il titolo verdiano con la regia di Davide Livermore
di Ilaria Badino
[laquo]ANIMA MIA, TI MALEDICO!»: con questo ossimoro di potenza lancinante Otello apostrofa la dolce sposa sul finire del terzo atto, poco prima di svenire sopraffatto dal vortice emotivo che ormai lo corrode in maniera inesorabile. Έρως και Θάνατος: termini antitetici avallati quale binomio inscindibile non solo da millenni di letteratura, ma anche dalla stessa dimensione psico-fisica umana nel momento in cui le fondamentali pulsioni di vita e di morte sono portate all’esasperazione. Otello uccide perché ama. Desdemona muore perché ama. Storia terribile, ingiusta; gesto imperdonabile quello del Leone di San Marco: il mito moderno che ebbe in Shakespeare il suo cantore più celebre continua ad avvincere, a sdegnare e a spaventare fors’anche perché, in cuor nostro, sappiamo che dall’«idra fosca» della gelosia nessuno può dirsi totalmente immune.
Proprio al Bardo si rivolge Davide Livermore facendo dipanare la vicenda su di una scenografia composta da enormi cerchi – esplicito riferimento al Globe Theatre di Londra – insaporita anche da allusioni ai mondi della fantascienza (forte è il richiamo alla struttura dell’astronave Enterprise di Star Trek) e dei manga (l’acconciatura ravanello pallido di Desdemona, le creste punk rosa shocking delle damigelle e le chiome pastellate dei paggetti nel second’atto). Il lavoro del regista torinese, coadiuvato da Giò Forma, si concentra più sull’estetica della scene che non sulla varietà delle soluzioni interpretative (fatta eccezione per quel «Dio! Mi potevi scagliar» cantato e accompagnato gestualmente da Otello sul proscenio mentre Jago ne ripete le movenze – o le suggerisce? – in secondo piano). Un ruolo di spicco è giocato dall’ingente dispiego di videoproiezioni, il cui grado d’incisività parte dall’efficacia per toccare le vette di un magico stupore con i flutti della tempesta iniziale, le essenziali linee rosse che insanguinano il Credo di Jago ma, soprattutto, con quella tonda oasi di terra che, sulla coda del duetto di perfetta beatitudine coniugale, s’innalza nello splendore di un lattiginoso cielo trapunto di stelle dove «Venere splende».
D’ineguagliabile eccellenza il trio protagonistico. Gregory Kunde, ad un anno dal debutto nel definitivo ruolo verdiano del Moro, è riuscito a spingersi ancora oltre rispetto ai già miracolosi risultati ottenuti a Venezia: la linea vocale è più densamente verdiana, i registri medio e grave hanno acquisito ulteriore corpo ed intensità espressiva. Rimangono poi un unicum, perlomeno nella recente storia interpretativa di Otello, quella raffinatezza caleidoscopica del fraseggio di matrice belcantistica che fa del prostrato arioso di «Dio! Mi potevi scagliar» il vertice della serata, nonché la lama abbacinante delle impennate acute che, in gola agli altri interpreti della parte a noi contemporanei, rimangono perlopiù mutile o strozzate (è questo il caso di «amore e gelosia vadan dispersi insieme!» e del «vil cortigiana»). Altro momento topico della serata, salutato da un successo al calor bianco, è stato il «Sì! Pel ciel marmoreo giuro», dove al possente furor geloso di Kunde-Otello s’è ottimamente amalgamata la bella vocalità baritonale di Carlos Álvarez-Jago. Il cantante spagnolo, tornato finalmente a pieno ritmo sulla scena dopo una lunga assenza dovuta a problemi di salute, dona al più infido dei personaggi la sua figura elegante ed il suo timbro pieno e caldo, di rara, nobile verdianità: per mezzo delle sue movenze misurate e della sua signorile gestione del suono, l’alfiere del tradimento appare in una luce sì mefisofelica, ma anche fortemente umana, di modo che lo spesso vituperato Credo torna ad assumere le giuste sembianze di una professione d’ateismo piuttosto di quelle di una sequela di bestemmie.
Il giovane soprano Maria Agresta, in costante ed irresistibile ascesa, è forse con la soave Desdemona al suo personaggio meglio riuscito. La linea vocale, di un nitore adamantino che ben si sposa con la purezza d’animo della nobildonna veneziana, viene declinata magistralmente sia ai cantilenanti turbamenti della Canzone del salice sia, soprattutto, alla placida preghiera, che l’Agresta esegue nella sua interezza stando sdraiata e, a dispetto della scomoda postura, regalandoci un eterno filato in pianissimo sull’«Ave» conclusivo. Di elevato livello i comprimari, mentre altrettanto bene non si può dire della direzione del giovane Andrea Battistoni, giunto troppo presto ad una partitura d’eccezionale complessità espressiva. Più di una volta viene a mancare la precisione dell’incastro vocal-strumentale nelle grandi pagine corali (le discronie più evidenti si sono verificate nel maestoso concertato del terz’atto) e, pecca ancora più dolorosa da constatare, le situazioni sceniche che abbisognerebbero di una consistente varietà dinamica e agogica del sostegno orchestrale paiono languire in una asettica monocromia.
Genova | Teatro Carlo Felice | 27 dicembre 2013
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