Quarta volta in settant’anni per l’opera di Mozart nel teatro veneziano (la prima, nel 1947, è stata anche la prima italiana, 166 anni dopo il debutto). Questo dà l’idea di quanto sia raro il capolavoro sulle nostre scene
di Cesare Galla
Le “note di regìa” pubblicate sui programmi di sala dei teatri d’opera si dividono essenzialmente in due generi: il pleonastico (spiegare quello che ciascuno può vedere da sé) e l’inutile (spiegare quello che comunque nessuno riesce a capire). Nell’uno e nell’altro caso, sono un esercizio sempre più desueto. Nell’era della comunicazione diffusa e multimediale, infatti, ben prima che si levi il sipario lo spettatore informato già sa, grazie ai media (tradizionali e non,) quello che va a vedere. E poiché l’unico elemento di un’opera considerato in grado di suscitare interesse o curiosità (lo scandalo è un colpo gobbo che riesce sempre meno) è la regia, ecco perché le “note” sono ormai poco coltivate: le troviamo anticipate, molto più ad effetto, sui giornali e in rete.
Un bell’esemplare all’antica di queste esternazioni, però, si può trovare nel “libro” pubblicato in occasione delle rappresentazioni di Idomeneo, spettacolo inaugurale della stagione della Fenice. Il regista Alessandro Talevi coglie due aspetti principali nell’opera di Mozart su libretto di Giambattista Varesco, la necessità del cambiamento (oggi la chiamano rottamazione: il vecchio re deve sgombrare il campo e lasciare il posto al figlio) e la spinosa questione dell’integrazione fra i popoli accentuata dall’ondata migratoria. Nel melodramma, secondo il regista, questo tema si riflette nel rapporto fra i greci di Creta (padroni a casa loro, insensibili, decadenti e viziosi) e i profughi di Troia, straccioni, disperati e vittime di inutili soperchierie.
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Delineate così le sue tesi, non è che poi Talevi spinga troppo sul pedale dell’attualizzazione. Il suo spettacolo, infatti (scene di Justin Arienti, costumi di Manuel Pedretti), è piuttosto dello stile “senza tempo”, senza segni mitologici ma anche senza soverchi rimandi all’oggi. Il problema è che per correre dietro alle sue idee, il regista finisce per perdere completamente di vista quelle del compositore. Che realizza qui, a partire dall’ormai consunto calco formale dell’opera seria italiana, un unicum nel teatro per musica del Settecento: una sorta di monumentale “portale” che segna l’ingresso nel mondo mozartiano dei grandi capolavori per la scena, laddove le distinzioni di genere non hanno più davvero senso e la forma musicale diventa la chiave di volta per una drammaturgia dei caratteri sideralmente lontana dalla fissità degli “affetti” metastasiani. In Idomeneo tutto questo si vede talvolta in controluce, non di rado in luce diretta. Effetto di una partitura sontuosa e grandiosa, di ricchezza strumentale affascinante, che se non può rinunciare alla tipologie delle Arie le anima dall’interno con una ricchezza espressiva che tracima prima e dopo nel tessuto connettivo degli innumerevoli recitativi accompagnati. Ne esce un “continuum” declamatorio che mostra le conseguenze della riforma operistica gluckiana (evidente anche nella centralità dell’elemento corale) ma delinea soprattutto una visione tragica non più mitologica, ma profondamente umana, con un livello emozionale che ancora oggi fa il suo effetto.
Impegnato nei suoi giochetti a tema, Talevi di tutto questo si disinteressa, lo lascia scorrere sotto le sue immagini qualche volta interessanti (l’effetto-mare realizzato con l’antico sistema dei rulli rotanti), altre volte curiose (la reggia di Idomeneo come qualcosa a metà strada fra “Wunderkammer” e museo del mare, con reperti e mirabilia provenienti dalle profondità) ma spesso stravaganti in modo preponderante e inutile. E accade così che il fulcro emotivo dell’opera, il sublime Quartetto del terzo atto «Andrò, ramingo e solo», veda la sua temperatura patetica “rappresentata” da una distesa di abiti laceri, sporchi e insanguinati. Soluzione che va in direzione opposta rispetto alla strenua e commovente eleganza del linguaggio musicale.
Fortunatamente, se lo spettacolo è risultato debole e irrisolto, di straordinaria quanto eloquente profondità è stata l’interpretazione che ne ha proposto, dal podio, Jeffrey Tate. Senza la concitazione dei tempi oggi in voga, il direttore inglese si è addentrato nella partitura sciogliendone i nodi espressivi con gusto impeccabile ed equilibrio rivelatore nella cura del fraseggio. Dal lirismo denso di implicazioni psicologiche alla drammaticità interiormente sofferta o coraggiosamente esternata, la sua è stata una vera e propria “regìa musicale” nel nome di Mozart: una lettura capace di far emergere la forza dei personaggi e lo spessore del loro emozionante confronto. Smagliante in ogni dettaglio e di suono rifinitissimo l’orchestra della Fenice, lanciata da Tate sulle tracce della mitica orchestra di Mannheim, protagonista della prima esecuzione a Monaco nel 1781, condizione decisiva per l’unicità di Idomeneo.
Di alto livello la compagnia di canto, con il tenore Brenden Gunnell abile nel delineare i tormenti di Idomeneo senza uscire dalle coordinate dello stile e con il mezzosoprano Monica Bacelli capace di dare al figlio Idamante la linea di canto ideale per far risaltare il connubio di belcantismo (anche nel colore ambrato della parte) con un’espressività duttile e multiforme, ben riflessa anche nei recitativi. Il soprano Ekaterina Sadovnikova – nella sua meditata linea di canto – è stata una Ilia di sentimentali abbandoni ma non senza forza interiore, mentre Michaela Kaune è risultata un’Elettra di colore generico come il fraseggio, lontana da far scaturire emozione dall’aspra coloratura che Mozart ha riservato alla parte. Corretto, non particolarmente incisivo Anicio Zorzi Giustiniani nella parte di Arbace, cospicua musicalmente (due arie) ma non drammaturgicamente, forse il maggior “residuato” della tradizione settecentesca nell’opera. Preciso e concentrato nel suo ruolo centrale il coro istruito da Claudio Marino Moretti.
Era la quarta volta in settant’anni che Idomeneo si rappresentava alla Fenice (la prima, nel 1947, è stata anche la prima italiana, 166 anni dopo il debutto) e questo dà l’idea di quanto sia raro il capolavoro mozartiano sulle nostre scene. Il clima era quello luttuoso della memoria delle vittime degli attentati di Parigi e dell’unica vittima italiana, che era com’è noto una giovane veneziana. Commozione ma anche tensione: ripetuta due volte la comunicazione preventiva al pubblico sul forte rumore previsto al terzo atto, nella scena in cui si palesa l’Oracolo di Nettuno. Rappresentare l’opera in tempi di terrore fa diventare un problema anche l’uso dell’antica e teatralissima “macchina del tuono”.
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