di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Gran mattatore, a Torino, la sera dello scorso giovedì 8 marzo, il violinista Ray Chen, una vera e propria star: nato a Taiwan e cresciuto in Australia, ormai un ‘personaggio’ nonostante l’ancor giovane età, che spopola sui social e, non a caso, quando entra in sala da concerto è per così dire preceduto dalla sua stessa fama. Era per la stagione di Lingotto Musica, in Auditorium ‘Agnelli’. Prestigiose collaborazioni, una già ragguardevole discografia, primo musicista classico «invitato a creare un blog sulla sua vita di artista dalla RCS Rizzoli», recentemente comparso sulla rivista «Vogue», avvezzo ad esibirsi in occasione di rilevanti eventi mediatici come la celebrazione della presa della Bastiglia dinanzi ad un pubblico di 800mila persone o durante la consegna dei premi Nobel a Stoccolma. Ray Chen ha una tecnica a dir poco strepitosa, rasentando la perfezione assoluta. Ma, al contrario di altri interpreti orientali, per sua e nostra fortuna, non è una macchina. Suona infatti con gusto, sensibilità ed appropriatezza di stile. E lo si è piacevolmente constatato nel Concerto in re minore op. 47 del finlandese Sibelius che ha inaugurato la serata. Ottimamente assecondato dalla London Philharmonic Orchestra, formazione di lusso dall’elevatissimo livello interpretativo, per dirla in termini ancor più espliciti, una delle migliori orchestre al mondo, guidata con mano salda dal fuoriclasse Vladimir Jurowski che già avevamo avuto modo di apprezzare anni addietro a Torino: per la chiarezza e l’efficacia del gesto, l’appropriatezza delle opzioni stilistiche e per la cura maniacale dei dettagli di fraseggio, timbrici e via elencando.
Del vasto Concerto di Sibelius Ray Chen e Jurowski sembrano avere la medesima visione interpretativa: e questo è senz’altro un bene; troppe volte infatti si percepisce un gap, uno iato tra solista e direttore. Ray Chen ha sbaragliato nei passi di bravura, sfoderando brillantezza incredibile dove occorre, ma anche eleganza sopraffina nei passi che richiedono mano lieve e delicata, cantabile e altro ancora. L’Orchestra ha peraltro avuto modo di farsi ammirare sia nei passi slanciati ed aitanti, sia in quelle zone brumose, nordiche, come alonate, nei tratti contrassegnati da un che di cavalleresco come di leggenda e nei rutilanti impasti di ottoni. Ammirate tutte le prime parti e così pure il’ suono’ complessivo che caratterizza la LPO. Quanto a cantabile, Ray Chen si è imposto in special modo nel superbo e bellissimo Adagio, fiondandosi poi con una carica energetica che ha del prodigioso nel pirotecnico Allegro finale, tutto «scalpitante e zingaresca vivacità». Ed era una gioia vederlo ed ascoltarlo, non una nota fuori posto, tutto ritmicamente in asse, intonazione perfettissima, impeccabile precisione nei passi cadenzanti di bravura e, a fine lavoro, come prevedibile, uno strepitoso trionfo personale per il giovane artista.
Due i bis generosamente offerti al pubblico, di Paganini l’impervio Capriccio n. 21, dalle scatenate figure picchetta

te, eseguito con una perfezione pressoché assoluta, una leggerezza e una verve a dir poco impareggiabili: una gioia per le orecchie e per il cuore, e di Bach la Gavotte en rondeau dalla Terza Partita, in mi maggiore BWV 1006 eseguita invero con alquanta e fantasiosa libertà. Non certo di un’esecuzione filologica si è trattato, e i puristi, ovvero i barocchisti doc, avrebbero qualcosa da eccepire, pur tuttavia ha saputo sprigionare un magnetismo tutto suo e davvero speciale che – a onor del vero – ci ha fatto apprezzare Bach come illuminato da una luce diversa. E pur preferendo esecuzioni più ‘composte’ lo abbiamo applaudito con piacere per la calorosa generosità del suo sentire.
Poi seconda parte di serata per intero dedicata allo stravinskijano balletto Le baiser de la fée che è raro invero ascoltare nella sua interezza: di norma se ne ascoltano infatti la prima o la seconda suite, al più entrambe le suites in abbinamento. Oltre che raro, occorre ammetterlo, è anche impegnativo: per l’orchestra e per gli ascoltatori.
Come noto si tratta di un lavoro richiesto a Stravinskij nel 1927 da Ida Rubinstein e che il musicista compose intessendo una trama sonora tutta contesta di temi dell’adorato Čajkovskij. Siamo in pieno Neoclassicismo musicale, ne derivò peraltro un singolare lavoro, del tutto originale, che definire pastiche come altri e pur pregevoli partiture del tempo è fuorviante. E ciò per la partecipazione affettiva che Stravinskij profuse attingendo ad un autore per il quale nutriva ammirazione sconfinata, dunque niente oggettivazione e distacco intellettualistico, elementi questi connaturati al Neoclassicismo stesso. La LPO ha rivelato grande souplesse ed una buona dose di necessario humour. Soprattutto ammirevole si è rivelata la capacità di Jurowski di ‘giocare’ con i timbri puri, di far emergere le parti soliste (potendo contare su prime parti di altissimo livello) e allora ottoni incisivi e possenti, fascinosi legni, la pasta dolce e ambrata degli archi. Pressoché perfetti i raccordi tra le diverse scansioni ritmiche, ovvero molto efficace la resa del gioco raffinato di poliritmie che Stravinskij profuse nella partitura. Buon successo, anche se invero, una parte del pubblico pareva un poco spiazzata, come destabilizzata da una partitura di innegabile bellezza, ma che, occorre al metterlo, non pone in luce tutte le enormi potenzialità dell’orchestra, intesa nel suo complesso di massa fonica. Ma si sa, un’orchestra non si misura solo per il suo vigore sonoro e la possanza, ma anche per il nitore del gioco raffinato di timbri che un mago come Stravinskij h saputo inventare.
Gradito bis orchestrale, dal čajkovskijano Lago dei cigni, come a chiudere il cerchio, come a rammentare agli appassionati il grande amore di Stravinskij per il suo conterraneo e ‘predecessore’. E dunque un bis non solo del tutto ‘giustificato’ (verrebbe da dire quasi obbligato) bensì, ancor di più, una lezione di stile, una preziosa indicazione storico-musicale ad indicare la linea di continuità tra Čajkovskij e Stravinskij, sul territorio del balletto che in Russia, si sa, ebbe sempre radici profonde.
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Un cenno fuggevole, per mere ragioni di spazio, e pur più che doveroso al concerto per la rassegna di Lingotto Giovani tenuto la sera di lunedì 19 marzo 2018 presso la Sala Cinquecento dal giovanissimo clavicembalista Jean Rondeau. Sala al completo e un successo incredibile (e meritatissimo) per l’interprete che ha suonato le sublimi e bachiane Variazioni Goldberg. Ne abbiamo ammirato la perfezione tecnica, certamente, ma soprattutto la chiarezza di fraseggi, la sensibile e sagace capacità di ritornellare proponendo sempre nuove ornamentazioni, perfettamente in stile, filologicamente corrette e pure personali. Rondeau ha privilegiato il lato intimista, per così dire ‘notturno’ delle Goldberg, centellinando con una cura incredibile le variazioni più rarefatte, quelle dolenti e striate di cromatismi, attenuando alquanto il côté brillante e virtuosistico che pure non è mancato: in quei passi dove il perpetuum mobile ha il sopravvento e la commistione di stili, ora tedesco, ora italiano, ora – soprattutto – francese sembra trovare una felice sintesi. Applausi convinti e a lungo protratti (cosa davvero rara per un concerto di solo clavicembalo, da sempre un territorio di nicchia), molti i giovani, non solo musicisti e studenti di Conservatorio, fa piacere constatarlo, ed un gradito bis sul versante francese: il sommo Couperin, come a dire «Bach è anche in quella direzione che seppe guardare».