di Attilio Piovano foto © Andrea Macchia
Diario di bordo. Teatro Regio di Torino, mercoledì 12 giugno 2019, penultimo (doppio) titolo in cartellone. Intrigante e suggestiva l’idea di accostare la mascagnana Cavalleria, anziché ai celeberrimi Pagliacci, come d’uso, al balletto La giara di Casella; molte, ragionevoli ed evidenti le motivazioni, analoga l’ambientazione siciliana e rurale, là l’apoteosi del verismo in musica (come a dire da Verga al pentagramma), qui un’assai celebre (e simbolica) novella di Pirandello posta al servizio di una partitura di sovrumana bellezza neoclassica, insomma affinità palesi, opzione pertanto del tutto plausibile e piacevolmente condivisibile, fatta salva la distanza espressiva, stilistica e linguistica dei due autori. E si sa – mi sia concessa l’ovvia affermazione – siamo in presenza di due capolavori assoluti, sia pur dissimili.
Partiamo dunque dalla Giara che inaugurava la serata. Si trattava di una nuova commissione del Teatro Regio e di una prima assoluta della Compagnia Zappalà Danza. La musica innanzitutto. Casella, componendola nel 1924, seppe intessere una partitura di enorme fascino, che occhieggia a Stravinskij, certo (e di fatto il ‘nostro’ Casella è lo Stravinskij italiano), ma che nel contempo suona squisitamente ‘italica’, con i suoi ritmi ora forsennati e irrefrenabili, ora come sospesi, angolosa e cubista, ma anche densa di languori mediterranei con quelle allusioni a tarantelle e canzoni popolari riversate in partitura con un’abilità combinatoria (timbrico-armonica) che ha davvero del prodigioso, da parte di un musicista colto ed estremamente ricettivo, dalla formazione europea, attento alle avanguardie parigine, non meno che alle proprie radici culturali. Andrea Battistoni dal podio ha ben posto in evidenza tutto ciò, potendo contare sull’Orchestra del Regio in buona forma. E non a caso il versante musicale dello spettacolo ha conseguito un ottimo esito, riscuotendo buon successo.
Veniamo al côté visivo che in un balletto è elemento a dir poco prevalente. Roberto Zappalà, disponendo sulla scena 11 danzatori di eccellente bravura (li si vorrebbe nominare tutti…), perfettamente coordinati, in grado di muoversi con una sincronia ammirevole ed esattissima (e, cosa non da poco, in perfetta sintonia con il mutare della musica dai singoli, brevi numeri accostati parassiticamente, in una continua mutevolezza dei ritmi e dei metri), ha firmato regia, coreografia, scene (di fatto una scena unica, un simbolico ovale allusivo alla bocca della giara stessa) e le ottime luci perfettamente funzionali al tutto. Gradevoli ed efficaci i costumi di Veronica Cornacchini e dello stesso Zappalà allusivi alle ceramiche di Caltagirone, dalle screziate e variopinte cromie. Certo, chi si aspettava di veder rappresentato il collerico don Lollò e il pragmatico conciabrocche Zi’ Dima è rimasto un filino deluso, così pure niente festosi contadini che rientrano dai lavori agricoli, niente mistero della notte al quale allude invece magnificamente la musica, niente rotolare finale della giara da un’altura con catartico fracassarsi della medesima e fuoriuscita del flemmatico Zi’ Dima: in sua vece una risibile e copiosa pioggia di olive (se pure erano olive…). Eppure, a detta di Zappalà e di Nello Calabrò che ha concepito la drammaturgia, tutto questo in un certo senso c’era nello spettacolo. Certo non di spettacolo narrativo si tratta. Ed è giusto che sia così. Nella danza contemporanea è infatti un vero e proprio diktat.
Peccato che molti dei significati più o meno reconditi, che Calabrò allinea nelle sue note, stentassero ad essere decritatte dai più (e quando si sente la necessità di inserire mezza paginetta per ‘spiegare’ al pubblico c’è qualcosa che non funziona: tutto in teatro deve evincersi dallo spettacolo, ha efficacia quanto si vede e quanto accade sulla scena, non già quanto emerge dalla lettura delle dichiarazioni di intenti, perché di questo si tratta, ancorché pomposamente denominati ‘drammaturgia’). E allora ecco – stralciando – la giara che «diventa scena stessa», i danzatori che vi danzano ‘dentro’, «pancia e bocca, visceralità», «un interno che protegge e ripara», il «liquido amniotico» il «taglio obliquo» allusivo ai famigerati ‘tagli’ di Fontana, ma in riferimento a un parto cesareo, un interno «dove ci si adatta a vivere come nella balena di Collodi»; e ancora Pinocchio come «segno della menzogna» e allora il mondo maschile e i suoi soprusi sull’universo femminile (i danzatori non a caso sono tutti maschi), la giara totem, il «luogo anti panico, privilegiato dove [testuale] la visione del mondo è libera dai bruscolini della vista» (sic). La giara prigione, ma «dalla quale non si vuole uscire come se solo là dentro si potesse raggiungere la felicità», la giara «per Zi’ Dima, per i danzatori e per tutti noi, come la Fortezza di Parma per Fabrizio del Dongo» (e abbiamo scomodato perfino Stendhal, ma era il caso?) What else?
Francamente incomprensibile e destabilizzante l’esordio dello spettacolo. Con mimi nero-coperti (allusivi forse a misteriose realtà ancestrali? a pecore nere? a riti apotropaici?) e l’orchestra che, partendo dal consueto la d’ordinanza dell’oboe, ‘fingeva’ di accordare per alcuni minuti, con varianti e divagazioni ad libitum: direttore immobile, ma pochi lo hanno notato, e pubblico un po’ stranito. Non potrei giurarlo e soprattutto, absit iniuria verbis, non vorrei sembrare offensivo nei confronti del pubblico, ma immagino che una buona metà delle (in)colte, facoltose e sempre meno eleganti madamazze nonché degli attempati uomini del mondo economico-industriale che di norma presenziano alle prime, pensasse di trovarsi già al cospetto della musica di Casella («una musica che proprio non riesco a capire», parole di una delle dette signore in sala e pura costernazione di chi scrive, considerato che questa musica ha ormai un secolo, come non aver ancora metabolizzato Picasso o Chagall, Ravel o Poulenc). Salvo poi accorgersi dell’inizio vero e proprio (guarda caso con l’oboe sonnacchioso e sommesso). Un flop, a nostro avviso, un’inutile trouvaille: procrastinare l’inizio stesso e un far cadere la tensione prima ancora di iniziare anziché attizzarla. Applausi peraltro generalisti e generosamente buonisti, da parte dell’intera platea (verosimilmente anche da parte di chi poco o nulla aveva compreso, né si era dato pena di leggere, prima dopo o durante, le citate note esplicative alias drammaturgia).
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Ed ora Cavalleria in un nuovo allestimento del Regio con la sagace regia di Gabriele Lavia, esperto e navigato uomo di teatro con idee chiare e la capacità (non comune) di porle in atto e tradurle in soluzioni in grado di giungere agli occhi e al cuore degli spettatori. Emozionando. Un lavoro puntuale e meticoloso, il suo, assistito da Anna Maria Bruzzese, sulla recitazione e così pure sui movimenti dei singoli e delle masse (bambini compresi), al servizio di una messa in scena di forte impatto, quanto in realtà con mezzi tanto semplici ed efficaci. Suggestive le scene (e così pure i costumi) ideati da Paolo Ventura, con l’evocazione di una Sicilia lavica, nella quale a prevalere è il nero: posto a reagire con due vistose ‘strisciate’ rosse, quasi lava incandescente, ma in realtà sono petali di fiori, a simboleggiare passione e sessualità, non a caso il colore rosso è presente nella sola mise di Lola (che ancheggia moderatamente in scena, laddove le altre donne sono sottomesse e sottotono); ma per Santuzza, Lavia ha concepito una resa tale da restituirne tutta la complessità e così pure per Turiddu, a simboleggiarne i tormenti interiori e le palpitanti inquietudini. Ottime le luci di Andrea Anfossi grazie alle quali si trascorre dalla notte prevedibilmente umida e costellata di afrori mediterranei, oltre che dominata da una grande luna, alla solarità del giorno. Attrezzeria fatta di paccottiglia religiosa per la processione di Pasqua, come si conviene ad evocare una religiosità carnale e un po’ pagana, tipica di certo Sud, e allora la statua della Vergine e il Cristo Pantocrate, il tavolaccio dell’osteria con le brocche e financo il carretto siciliano e un mansueto cavallo nero (di nome Niels, che per fortuna non ha fatto danni: sempre pericoloso mettere in scena animali, anche se d’effetto). Insomma tutto quanto legittimamente ci si attende, compreso il rabbuiarsi improvviso della scena nel momento clou del morso all’orecchio che segna la condanna a morte di Turiddu, il vino rovesciato da compare Alfio, un cielo in altri momenti tetro e nero come le pietre laviche.
Le voci. Il mezzosoprano Sonia Ganassi ha saputo rendere sia vocalmente sia sul piano attoriale una Santuzza a tutto tondo, con le sue contraddizioni, combattuta e determinata, innamorata e disperata. Molto apprezzato il baritono Gëzim Myshketa (dal secondo cast, in luogo dell’indisposto Marco Vratogna) nei panni del carrettiere Alfio, a giganteggiare in questa storia di passione e gelosia, sovrastata dal ferale destino. Scialba la performance di Michela Bregantin (mamma Lucia) e di non particolare spicco nemmeno quella di Clarissa Leonardi (nei panni di Lola). Da ultimo citiamo il Turiddu di Marco Berti, francamente sopra le righe e davvero troppo sanguigno: si tratta di verismo, ma certe sue aitanti impennate sono parse eccessive destando forti perplessità tra critici e melomani, e lo hanno altresì tradito sul piano dell’intonazione e della precisione ritmica. Già se n’era avuto un assaggio (negativo, a voce fredda) nel canto popolare siciliano inserito da Casella entro La Giara al pari di Stravinskij nel suo (ben più noto) Pulcinella.
Molto bene il coro che (ottimamente istruito da Andrea Secchi) ha ruolo non certo secondario in questa storia di amore e morte, eros e thanatos, gelosia e vendetta, angoscia e maledizione. Battistoni ha compiuto un egregio lavoro di concertazione, dirigendo con esuberanza a tratti fin troppa (talora coprendo un poco le voci): forse avremmo voluto meno veemenza e qualche dettaglio reso in maniera più delicata e diafana. Il celeberrimo e toccante Intermezzo ha peraltro – prevedibilmente – suscitato forti emozioni (ma il bambino che urla la celeberrima frase «Hanno ammazzato compare Turiddu» con timbro stridulo e agghiacciante come in un film di Dario Argento, è parso un tocco di inutile splatter, sfiorando il ridicolo). Applausi convinti a fine serata per uno spettacolo del quale conserveremo memoria, sia quanto a versante visivo, sia pure (nel complesso) sul piano più squisitamente musicale.