di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
La prima recensione di uno spettacolo d’opera dedicava un tempo uguale rilievo sia al giudizio relativo al lavoro in sé sia all’interpretazione dello stesso da parte del direttore, della compagnia di canto e, solamente in tempi più recenti, da parte dei responsabili dell’allestimento scenico. È pacifico che oggi nessuno più si sognerebbe di avanzare commenti sul Don Giovanni, o sulla Turandot o il Falstaff, ma nel caso di opere poco conosciute e raramente inserite nei cartelloni il discorso è diverso anche perché è logico chiedersi i motivi di eventuali rare apparizioni in teatro di titoli che dovrebbero in teoria avere alle spalle decenni e decenni di storia.
Nel caso de I masnadieri si ricade in questa seconda casistica e se è vero che negli ultimi vent’anni si sono avute diverse occasioni di ascoltare e di vedere nuove produzioni di quest’opera (I masnadieri sono stati ad esempio messi in scena negli ultimi quindici anni a Bologna e a Roma, per citare esempi nostrani, con direttori di spicco quali Roberto Abbado, Daniele Gatti e Daniele Rustioni e anche all’estero non si può dire che il titolo sia oggi del tutto sconosciuto) le occorrenze scaligere sono davvero poche e meritano un commento a parte. Le prime esecuzioni scaligere del 1853 e del 1862 erano già in ritardo rispetto alla data di presentazione dell’opera (a Londra, il 22 Luglio del 1847) e non andarono incontro a un successo stabile, tant’è che bisognerà attendere il 1978 per riascoltare l’opera, affidata alla giovane bacchetta di Riccardo Chailly. E in quella occorrenza di quarant’anni fa pesò molto il giudizio di Massimo Mila, che affermò essere I Masnadieri “una delle sei opere brutte di Verdi” se non addirittura la più brutta, mentre altri critici si limitarono ad osservare come il musicista avesse ridotto gli originali significati del testo schilleriano a una sequenza tipica di un drammone romanzato, anche grazie alla responsabilità del librettista Andrea Maffei. Il giudizio su questi Masnadieri si è da allora assestato su un piano differente, e si è riconosciuta una non trascurabile aderenza da parte del compositore alle multiformi istanze del soggetto schilleriano. Ma l’appunto che si può avanzare ancora oggi è quello relativo alla collocazione cronologica dell’opera in seno al catalogo verdiano: I masnadieri seguono infatti titoli poi recuperati al successo nonostante la loro inclusione nella lista dei lavori compiuti nei famosi “anni di galera” ed è ancora oggi difficile ammettere che quest’opera non del tutto felice sia stata scritta dopo Ernani, I due Foscari o Attila o contemporaneamente a un capolavoro come Macbeth.
Lasciamo ai musicologi la continuazione di un dibattito destinato a proseguire ancora a lungo e non sarà certo questa ultima produzione scaligera a contribuire in maniera definitiva a una valutazione generale dell’opera. Le scelte di regìa, la presenza di un cast vocale parzialmente ideale e una complessivamente buona concertazione e direzione non hanno che in parte salvato I Masnadieri dal giudizio di un pubblico che al termine della recita ha espresso, oltre che notevoli applausi, anche sonore riserve, tanto da chiedersi se la reazione del pubblico stesso era causata dalla recita in sé o, più probabilmente, da considerazioni viscerali sul valore dell’opera verdiana.
L’impostazione registica e scenica poggiava – una volta tanto senza operare pericolose traslazioni spazio-temporali – sulla ambientazione dell’opera nei confini della sala di una scuola militare frequentata da Schiller in gioventù. Da lì e dalle considerazioni relative all’esperienza opprimente del poeta partivano tutte le ragioni di una interpretazione a suo modo coerente e non priva di fascino. Schiller era stato dunque costretto a frequentare la dura, nuova accademia militare fondata dal Duca Karl Eugen del Württenberg, presso il quale il padre del poeta prestava servizio: l’esperienza di vita in un ambiente spesso brutale verrà in parte riversata da Schiller nelle tinte fosche del dramma Die Räuber (I Masnadieri) del 1782, un testo nel quale si riversano molte delle componenti rivoluzionarie (nei confronti della società e della stessa istituzione della famiglia) proprie della poetica dell’autore.
La contestualizzazione dell’opera verdiana, partendo sia dalle istanze originali di Schiller che dalla traduzione in musica operata dal musicista, è stata la preoccupazione principale di McVicar, che tra l’altro ha scelto un motivo assai singolare di contrappunto al suo allestimento, ossia la presenza in scena di una controfigura che rappresentava lo stesso Schiller. Il poeta seguiva dunque con visibile apprensione i differenti, contrastanti moti d’animo dei protagonisti, annotandone le specificità e allo stesso tempo partecipando come spettatore esterno al dramma, tranne che nel momento supremo della morte di Amalia, da lui sorretta in una sorte di Pietà michelangiolesca. Il problema è che la complessa stesura originale schilleriana è spesso ridotta ai minimi termini nel libretto di Andrea Maffei e a propria volta interpretata da Verdi attraverso canoni che a volte si discostano dall’impianto primigenio. Fatto questo che porta in ultima analisi a una non completa riuscita del lavoro verdiano e quindi a un difficile compito di realizzazione da parte sia del regista che del direttore e dei cantanti. Il finale dell’opera è in particolare un momento di difficilissima attuazione descrittiva e tutto sommato rappresenta il punto più delicato anche nel contesto della creazione di Verdi, che deve tenere conto di un rapido scioglimento negativo del dramma con la morte di tre dei quattro protagonisti e la resa finale del personaggio di Carlo. Le scene di Charles Edwards ben rappresentavano l’impianto pensato da McVicar anche se l’unico commento allo svolgersi dell’intricata vicenda – e alla furia devastatrice dei masnadieri – era costituito dall’invecchiamento delle strutture portanti dell’ambiente primitivo, realizzato attraverso sconnessioni delle travi di sostegno dell’impalcatura scenica. I costumi di Brigitte Reiffenstuel si dividevano tra una corrispondenza generica ai caratteri dei personaggi e una più vivace rappresentazione dei masnadieri, colti nelle loro varie trasformazioni.
Venire a capo di un vero e proprio rebus drammaturgico-musicale è cosa non certo facile, se non impossibile, e la insufficiente comprensione da parte del pubblico del notevole sforzo operato dai responsabili dell’allestimento scenico e musicale ha decretato un parziale insuccesso che si direbbe connaturato all’impianto stesso dell’opera. Mariotti ha dal canto suo seguito più Verdi che Maffei e Schiller e si è mantenuto su un registro appassionato e barricadiero, meno sottolineando le oasi liriche pur presenti nel testo e nella musica. A lui va comunque reso il merito di avere condotto con mano ferma un lavoro di difficoltà sproporzionata rispetto all’effetto che se ne riesce a trarre. E in questo Mariotti è stato egregiamente aiutato dalla presenza di un cast vocale notevole, che per quanto coinvolto negli aspetti interpretativi relativi ai singoli personaggi volgeva le proprie preoccupazioni verso quelli più propriamente tecnici richiesti da tessiture spesso proibitive.
La star della serata, che è sembrata cogliere (e risolvere) in percentuale maggiore rispetto ai colleghi tutti gli aspetti e le insidie del proprio ruolo è stato il soprano americano Lisette Oropesa, al suo debutto scaligero. Il ruolo di Amalia, originariamente pensato da Verdi in base alle caratteristiche vocali e sceniche del mitico soprano svedese Jenny Lind, è stato da lei ricoperto con bravura eccezionale, ancora più lodevole se si pensa alle richieste del tutto fuori dal normale espresse dal ruolo stesso. A lei il pubblico si è rivolto nel corso dell’opera e soprattutto al termine con vere e proprie acclamazioni, rare oggigiorno per intensità e unanimità di consensi. Michele Pertusi e Fabio Sartori sono stati anch’essi premiati dal pubblico: il primo forse nel senso di un omaggio complessivo alla carriera e alla intelligenza interpretativa nei confronti di un ruolo piuttosto difficile e relativamente poco gratificante, il secondo per una rispondenza sempre ottimale alle richieste vocali dei personaggi da lui interpretati. È da notare come Sartori sia ritornato, ovviamente con maggiore maturità, su un carattere da lui già affrontato nel 2003 con Daniele Gatti. Meno felice è apparsa la performance di Massimo Cavalletti, che aveva l’onere di configurarsi nei panni di un carattere di difficile definizione vocale e scenica. Di buon livello i comprimari: Francesco Pittari (Arminio), Alessandro Spina (Moser) e Matteo Desole (Rolla). Il coro era al solito ottimamente istruito da Bruno Casoni e doveva sperimentare una ulteriore scelta registica anticonvenzionale che vedeva la presenza di mimi come veri e propri briganti, mentre le vesti del coro stesso suggerivano la presenza di un pubblico popolare presente originariamente nel castello dei Moore e nei suoi dintorni. Contrastanti, come si accennava, le reazioni del pubblico, che si sono divise tra acclamazioni (soprattutto per la Oropesa, Pertusi e Sartori) e dissensi (nei confronti di regista, direttore e di Cavalletti). Questi ultimi in gran parte inaspettati, visto il successo che aveva connotato le prestazioni dei cantanti stessi e del direttore nel corso dello spettacolo.
L’esecuzione della “prima” (il giorno 18 giugno) è stata preceduta da un intervento del Sovrintendente Pereira, che ha brevemente ricordato la figura di Zeffirelli e invitato il pubblico al rituale minuto di silenzio. Ma la presenza di Pereira, che è stata salutata da un lungo, affettuoso applauso da parte del pubblico, è sembrata anche rappresentare una nuova presa di posizione nei confronti del CdA del teatro, orientato (anche se non si sa ancora in che tempi) all’allontanamento dell’attuale Sovrintendente in favore di un avvicendamento con Dominique Meyer, oggi responsabile a Vienna. I passi successivi di questo processo decisionale verranno resi noti verso la fine del mese e condizioneranno non poco anche la presenza e il ruolo del Direttore musicale Riccardo Chailly.