di Francesc Lora foto © Rota
I festival operistici italiani navigano a gonfie vele, e sono tanto più premiati dal pubblico quanto più sanno osare in fatto di titoli rari, interpreti innovatori e letture inedite. Lo esemplificano, in testa a tutti, i casi di Martina Franca, Pesaro e Parma, con il loro crescente vortice di presenze, il fortificarsi della vocazione artistica e la riuscita prova del nove al botteghino. Lo esemplifica alla pari anche Bergamo, con il suo festival monografico Donizetti Opera che ormai determina il calendario del melomane per una ventina di giorni, verso la fine dell’autunno: il tempismo consente di celebrare ogni anno, il 29 novembre, un nuovo anno del Gaetano viepiù vivo attraverso le proprie opere. L’edizione 2019 si è appena conclusa e il bilancio numerico oltrepassa la lusinga: pubblico aumentato di oltre il 20% rispetto all’edizione precedente, che pure sembrava già straripare; stranieri oltre il 50%, i quali sembrano invece denotare una roccaforte internazionale di fedelissimi; critica musicale europea in ostaggio a Bergamo, benché gli stessi giorni pullulino di spettacoli notevoli. L’edizione 2020 ha già i suoi due-tre titoli annunciati: Le nozze in villa (da confermare), Marino Faliero e La fille du régiment, garantiti dalle ricerche storico-filologiche della Fondazione Donizetti – il primo volume di carteggi e documenti, a proposito, è fresco di stampa attraverso novecentocinquanta pagine – e pronti a rivelare una frammentata partitura giovanile nel primo caso, forse i floridi materiali alternativi del secondo e, nel terzo, la rimessa a nuovo di un’opera arcinota. Quale, invece, il bilancio artistico degli ultimi spettacoli? Tale da accendere molti pensieri nella mente di chi vi assiste, di chi ne scrive e di chi ne legge; il botteghino bergamasco, cioè, festeggia, ma accanto c’è lo spirito di un festival autentico.
PIETRO IL GRANDE, KZAR DELLE RUSSIE
È l’opera buffa di un Donizetti ventiduenne questo Pietro il Grande dai più liquidato come spugna di passivi rossinismi, e che è invece un simpatico lavoretto conscio sì del modello di Rossini ma anche di possibili alternative stilistiche (chi voglia farsi l’idea di un perfetto calco ironico del linguaggio rossiniano, corra invece alla Rappresaglia di Mercadante nel prossimo Festival della Valle d’Itria: è ad honorem l’opera numero 40 del Cigno di Pesaro). Su nella città alta, a Bergamo, nel Teatro Sociale (ligneo, rustico, veneziano, repubblicano, senza palco reale: una delle sale storicamente più connotate in Italia), Pietro il Grande doveva essere lo spettacolo cadetto in cartellone, e per tre recite dal 15 novembre al 1° dicembre si è invece fatto largo. La concertazione di Rinaldo Alessandrini, il quale ha nel Seicento il repertorio acconcio, e l’orchestra Gli Originali, che usa strumenti antichi e un corista meno sfogato in acuto, non sono infatti il terreno per una rivelatoria analisi psico-drammaturgica; recano però – asciutti, oggettivi, graffianti: giusti – i volumi e i timbri dell’epoca di Donizetti. Loro complementari sono la regìa e le scene di Ondadurto Teatro, e i costumi di K.B. Project: strutture minime e plurivalenti, colori squillanti e quasi circensi, personaggi definiti con immediatezza. Compagnia di canto con una pallida coppia amorosa – Nina Solodovnikova come Annetta e Francisco Brito come Carlo – ma dominata da quattro campioni: Roberto De Candia, per cordiale signorilità, nella parte eponima; Loriana Castellano, per nobile distacco, in quella dell’imperatrice Caterina; Paola Gardina, come Madama Fritz vulcanica in scena e inebriante nel timbro; Marco Filippo Romano, che come Ser Cuccupis è la quintessenza del buffo all’italiana.
L’ANGE DE NISIDA
Composto nel 1839 per Parigi, L’ange de Nisida univa stile italiano e francese, superava schemi formali assodati e miscelava la tenerezza amorosa con il comico grottesco. Fallito il teatro a prove avviate, Donizetti smembrò la partitura, la riusò soprattutto nella Favorite e lì trasferì anche il grosso della drammaturgia. Ma L’ange de Nisida rimane lavoro inedito a sé stante e, quasi per intero, la musicologa Candida Mantica ha saputo riassemblarlo: dopo un concerto a Londra e l’uscita del relativo CD, il festival bergamasco si è aggiudicato la creazione in forma scenica. Nel cantiere del Teatro Donizetti in restauro, il direttore artistico e regista Francesco Micheli ha apparecchiato uno spettacolo – 16 e 21 novembre – che onora l’opera rinata con uno Sturm di idee, tecniche e suggestioni: l’azione trasportata nella platea deserta, i fogli della partitura che cospargono il suolo, i tarocchi evocati nelle proiezioni e negli abiti di carta stracciati con un affilato coup de théâtre (scene di Angelo Sala, costumi di Margherita Baldoni). La stessa competenza specialistica ammirata in Fernand Cortez di Spontini a Firenze si ritrova poi nella direzione di Jean-Luc Tingaud, alla testa di orchestra e coro del festival nonché di una compagnia di canto esaltata dal senso di squadra. Timida ed eroica insieme, liricamente modulata e insieme tragicamente poderosa è la Sylvia della ventitreenne e già assai scaltrita Lidia Fridman; ella forma una coppia ideale con il Leone di Konu Kim, tenore sudcoreano dall’estensione agiatissima, dall’inconsueta musicalità e dalla fresca comunicativa. Immacolati sono a loro volta il Don Fernand di Florian Sempey, per smaltata baldanza, il Don Gaspar di Roberto Lorenzi, per caustico sarcasmo, e il Monaco di Federico Benetti, per sobrietà espositiva.
LUCREZIA BORGIA
È iniziata la stagione di Lucrezia Borgia, presto in scena a Reggio Emilia, Trieste, Piacenza, Ravenna e Bologna: nei primi quattro casi, l’allestimento sarà lo stesso varato al Teatro Sociale il 22-30 novembre. Regìa di Andrea Bernard, scene di Alberto Beltrame e costumi di Elena Beccaro, con attenzione al tormento psicologico dei protagonisti intorno alle loro insoddisfatte sorti di madre e figlio, e con l’iconografia storica svecchiata in un disinibito realismo gestuale e in sferzanti macchie cromatiche (l’abito giallo di lei nel tetro contorno). Si segue una nuova edizione critica, e il direttore Riccardo Frizza – interprete non rivoluzionario, ma con mente e cuore fissi alla causa donizettiana – ha posto mano alle appendici. L’assetto dell’opera passa così da quello abituale di Milano 1833 a quello inedito di Parigi 1840: la romanza di Lucrezia perde una strofa in cambio di una cabaletta, Gennaro ottiene una scena in cambio del duetto con Maffio (mantenuto, però, nelle recite in oggetto) e il rondò finale accoglie il cantabile di lui ma perde la ripetizione della cabaletta. Una sola perplessità: che così non si stia rispolverando una versione degna di tal nome, bensì riproponendo un momento di instabilità e crisi del testo. Carismatico è nondimeno il protagonismo di Carmela Remigio, fatta per altro repertorio ma qui così caparbiamente applicata da annettere al maniacale scavo della parola anche la saetta dell’agilità di forza. Come portento della natura si impone Xabier Anduaga, Gennaro ammaliante nel timbro e facilissimo nell’emissione. Dal canto loro, Varduhi Abrahamyan risulta più colorita e incisiva come Maffio che nel Rossini en travesti, e Marko Mimica, come Don Alfonso, mostra più attendibilità di mezzi naturali che di risorse tecniche. Di qualità il lungo comprimariato.