di Francesco Lora foto © Teatro San Carlo
Ermione è l’opera di Rossini che unisce il più disinibito spessore tragico e il più violento ritmo drammatico; l’opera modellata sulla più insigne orchestra allora attiva in Italia e sulla più sfarzosa compagnia di canto dell’epoca (Colbràn, Pisaroni, David, Nozzari); l’opera che alla “prima” del 1819 cadde, presso un pubblico insospettito dai modi “tedeschi” del Pesarese; l’opera che nemmeno l’autore, insolitamente risoluto, tentò più di riabilitare (ne riusò tuttavia diversi brani in lavori come Eduardo e Cristina, Le siège de Corinthe e le rielaborazioni parigine della Donna di lago e di Zelmira). Il Teatro di San Carlo fa bene, oggi, a ricordare a sé stesso e al mondo la collana di opere serie che Rossini approntò per Napoli, sperimentando risorse inedite a più non posso: negli scorsi anni sono già stati dignitosamente riproposti Otello e Mosè in Egitto; l’occasione di presentare Elisabetta regina d’Inghilterra, Armida, Ricciardo e Zoraide e La donna del lago, in corrispondenza dei rispettivi bicentenari, è ormai andata buca; piacerebbe infine una maggior fiducia in Maometto II, capolavoro degno d’inaugurare la stagione in pompa magna e che invece, l’anno prossimo, sarà disbrigato con due esecuzioni in forma di concerto. Frattanto, appunto, Ermione: in Italia mancava dalle recite del 2008 al Rossini Opera Festival. A dimostrazione che il gioco vale la candela senza rischi al botteghino, le recite napoletane degli scorsi 7, 9 e 10 novembre hanno dato luogo a un concilio plenario di melomani internazionali, avidi di assistere a un titolo da pellegrinaggio nel sommo teatro del suo battesimo.
Guai, però. Guai a mitizzare le opere partenopee di Rossini fino a ritenerle ineseguibili: aprendo per tempo agenda e portafoglio, gli interpreti ideali si trovano eccome, con dovizia di combinazioni e alternative. Nel contempo, guai a confidare nella provvidenza divina là dove le pretese rossiniane non corrispondano a interpreti adeguati: per sostenerle servono le spalle forti di indiscussi specialisti. Le buone intenzioni non bastano: vedi quelle di aprirsi a una lettura storicamente informata affidandosi, tuttavia, a un concertatore con più intensa pratica del Settecento che dell’Ottocento. L’orchestra e il coro del San Carlo necessitano di una guida che dia loro motivazione; la compagnia di canto ha più che mai in Ermione il bisogno di sostegno e consiglio; la partitura stessa confida oggi in una lettura che inviti a più frequenti esecuzioni. Ma la direzione di Alessandro De Marchi risulta fiacca, stinta, senza nerbo, restìa all’implicito progresso dinamico, agogico e timbrico, intenta più alle licenze personali che all’esegesi scientifica: nella gran scena di Ermione, per esempio, egli devolve il terzo arioso dalle sezioni intere ad archi soli, in disaccordo con l’inequivoco dettato testuale e la corretta prassi lì prescritta (bastano i fiati in raddoppio a smascherare, anche nell’orecchio inesperto, l’implausibilità di un tale arbitrio). Un’occasione mancata è anche il nuovo allestimento con regìa di Jacopo Spirei, scene di Nikolaus Webern e costumi di Giusi Giustino: una visione drammaturgica troppo mite e un lavoro con gli attori troppo generico, al cospetto di un’opera che incede, per contro, con la bava alla bocca.
Nella compagnia di canto si trascorre dal colpaccio entusiasmante alla scelta di cast arrischiata. Ai vertici sta il protagonismo di Angela Meade: pronuncia italiana contaminata di yankee e stile non rifinito a un’alta scuola, ma volume impressionante, modulazione facilissima, sciolta vocalizzazione che lascia tanto più di stucco in associazione a un simile tonnellaggio; insomma un monstrum naturale e artistico il quale, anziché far interrogare sulla propria aderenza alla parte musicale e al personaggio, detta esso stesso in cosa questi debbano consistere. All’ultima recita Arianna Vendittelli è l’esatto contraltare: preparatissima nel porgere, impeccabile nella prosodia italiana, disinvolta nell’agire scenico, per lei la parte Ermione rimane nondimeno un passo più lungo della gamba, esigente com’è di ben più ampia risonanza, ben più agiata estensione e ben più insolente virtuosismo. Per sontuosa polpa timbrica e altera tenerezza d’eloquio, l’Andromaca di Teresa Iervolino è invece già di riferimento, così come l’Oreste di Antonino Siragusa sorprende più oggi, per tenuta, incisività e squillo, di quanto non avesse fatto undici anni or sono a Pesaro. Da dimenticare la prova di John Irvin, volonteroso tenore che nulla ha in tasca della tonante parte di Pirro, tutta fatta di sbalzi da un registro all’altro: quando nell’uscire di lui alla ribalta il pubblico mugugna allibito, egli lo insulta a gesti e perde l’ultima possibilità di difesa. Comprimariato di lusso, con riferimento specifico a Filippo Adami come Pilade, Guido Loconsolo e Ugo Guagliardo come Fenicio, Gaia Petrone come Cleone e Chiara Tirotta come Cefisa.