di Luca Chierici
Si era detto anni fa che Kissin stava dimostrando in tutto e per tutto di essere il vero erede della mitica stagione novecentesca del pianismo russo, quello dei Richter e dei Gilels, un pianismo che univa una visione strumentale molto brillante e testimone di sonorità intense a una lettura comunque profonda (il che non vuol dire per forza astrattamente meditata) e colma di significati del repertorio. Eppure fino a una decina di anni fa prevaleva in Kissin l’attenzione verso la letteratura più virtuosistica, un interesse comunque non risolto in termini di puro smalto esteriore, e le sue piuttosto rare proposte dei classici viennesi non lasciavano ancora trasparire approfondimenti degni di nota (si veda, su queste pagine, la recensione del recital milanese dell’ottobre 2012), anche se l’anno seguente Kissin dava prova di una svolta impressionante presentandosi al pubblico con una vibrante e profonda esecuzione di una delle sonate schubertiane tra le più complesse, la D 850. Assente dai nostri palcoscenici da qualche anno, Kissin è tornato l’altra sera in Conservatorio per la Società dei Concerti anche per ricordare la figura di Antonio Mormone, che per primo lo invitò a Milano più di trent’anni fa e ne seguì la carriera con attenzione e partecipazione ammirevoli. A quell’epoca Kissin non era certo sconosciuto, ma nemmeno usciva dagli allori di qualche premio blasonato: semplicemente era un ragazzo prodigio, nel vero senso del termine, che aveva già da qualche anno stupito il mondo musicale per la profondità ed eccellenza del suo approccio alla tastiera, meravigliando non solamente i docenti della mitica scuola Gnessin di Mosca ma anche personaggi del calibro di Karajan e di Abbado. Più o meno dalla metà degli anni ’80 Kissin veniva additato anche dalla critica più prestigiosa come esempio assoluto di elemento che dimostrava come il percorso individuale di un artista giovanissimo, investito da un dono naturale di eccezione, riprendesse i termini dell’intera evoluzione dell’interpretazione pianistica degli ultimi duecento anni: “ontogeny recapitulates phylogeny”, come ebbe a scrivere Harold Schonberg, riferendosi anche al caso del giovane pianista russo.
Sta di fatto che nel periodo che va dal 1985 al 2004 all’incirca, il Beethoven di Kissin si riduceva al “Rondò sul soldino perduto”, le Variazioni in do minore, la Sonata “al chiaro di luna”, una Contraddanza e una Scozzese. Ben poca cosa, anche se nello stesso 2004 vi fu l’exploit dei Concerti per pianoforte e orchestra con il ciclo beethoveniano completo presentato a Parigi sotto la bacchetta di Kurt Masur (ciclo inciso poi con Colin Davis) e ancora prima, nel 2001, Abbado aveva chiamato il trentenne Evgenij a Roma per fare da testimonial nei confronti del Concerto n. 3, essendo gli altri personaggi coinvolti – scusate se è poco – Alfred Brendel, Martha Argerich, Maurizio Pollini e il giovanissimo Cascioli. Però il rapporto tra Kissin e le sonate di Beethoven subì una svolta solamente in tempi successivi, con la proposta recente di capolavori come le sonate op.111, 57, 81, 106 fino ad arrivare al progetto discografico attuale in corso con la DG, sua nuova etichetta discografica.
Il recital dell’altra sera ha confermato in pieno questa svolta, e diciamo subito che accogliamo per principio con grande favore la capacità di un artista famoso come Kissin, oggi nel pieno della maturità e al culmine del successo, di porsi in discussione e di allargare il proprio repertorio, abituati come siamo ad altri esempi in cui si assiste a una cristallizzazione del repertorio stesso da parte di pianisti anche famosissimi o di un procedere a botte di programmi invariabili (uno per anno) da parte di quasi tutti i giovani pianisti in carriera.
Dall’incipit della “Patetica” si è capito immediatamente qual era il mood dell’artista e si può dire di tutta la serata. Kissin non ha pensato due volte ad esprimere con un’intensità profonda il famoso accordo di do minore che apre la Sonata, facendo allo stesso tempo intendere quanto dirompente fosse il messaggio beethoveniano, pure per forza di cose ammansito dalle tastiere dell’epoca, e insegnando alle giovani generazioni di pianisti in erba quanto sia necessario “osare”, esternare i propri convincimenti senza timori. Busoni distingueva del resto i pianisti tra coloro che dominavano la tastiera e quelli che invece ne venivano dominati. I tempi mossi scelti anche nel caso delle altre sonate, una sonorità sempre piena e pure assai controllata, scelte di fraseggio che individuavano un perfetto equilibrio tra impeto beethoveniano, valore della forma, senso delle proporzioni e cantabilità aperta contraddistinguevano di lì in avanti una lettura che ha impressionato in certi punti anche per una tendenza da parte di Kissin all’orchestrazione, all’evocazione del messaggio beethoveniano come elemento che è allo stesso tempe eminentemente pianistico e assolutamente musicale, con una estensione a un significato sonoro che trascende la cordiera dello strumento. Ciò è stato ancora più evidente nella Waldstein e in parte nella difficilissima “Tempesta”, un testo quest’ultimo che pone all’interprete ancora oggi dei problemi non del tutto risolti, soprattutto nelle parti frammentarie dei recitativi e del “pedale aperto”. Se il glorioso pianismo di Kissin ha trovato forse appunto nella Waldstein uno dei momenti di più felice definizione, non è possibile sottacere i risultati di primo livello ottenuti nella proposta delle Variazioni op. 35 su un famoso tema di quattro note utilizzato da Beethoven a più riprese e noto ai più perché innerva tutto il finale della terza sinfonia “Eroica”. Variazioni molto difficili, amate da Sviatoslav Richter, che culminano in una straordinaria fuga nella quale il genio beethoveniano si innalza come per miracolo sulle miserie quotidiane e sulle banalità dei compositori contemporanei alla moda. Straordinaria conclusione della prima parte della serata, questa, come la seconda è terminata con tre fuori programma, due dei quali scelti dalle raccolte di Bagatelle. E l’ulteriore scelta di Kissin nei confronti delle pochissimo eseguite Variazioni op. 76 sul tema della marcia dalle “Rovine di Atene” diventava un omaggio nei confronti di un luogo così sentito nella storia del pianismo russo. Richter le aveva in repertorio e Lazar Berman ne suonava volentieri un estratto virtuosistico trascritto da Anton Rubinstein, immagine di un nobile salotto d’altri tempi.
Il pubblico – per fortuna composto anche da molti giovani – ha capito di trovarsi di fronte non a una semplice serata celebrativa del ritorno di un pianista a Milano particolarmente amato. È stata una serata di grandissima musica e un ulteriore consacrazione di un interprete che non ha mai smesso di interrogarsi, e quasi di stupirsi per il successo franco e cordiale che riscuote oramai da quasi trentacinque anni in tutto il mondo.