di Luca Chierici foto di repertorio © Vico Chamla
Il rito del recital, per András Schiff, si arricchisce di sempre nuovi elementi, e lo si è visto nel concerto tenutosi venerdì scorso per la Società del Quartetto di Milano, con una terna di importanti sonate schubertiane. Schiff aveva già eseguito il ciclo completo per le Serate Musicali anni addietro, e in quel caso aveva sottolineato l’importanza di una visione unitaria di un complesso che unitario invero non è, e la proposta di un compendio assai raramente esplorato nel corso di una stagione concertistica. Se a quei tempi vi era stata la scelta piuttosto inconsueta di un paio di strumenti diversi (un Bösendorfer e uno Steinway), questa volta Schiff ha preferito coinvolgere solamente il primo dei due pianoforti, sia perché le tre sonate si collocavano in un ambito cronologico simile, sia perché il pianista preferiva evidentemente sottolineare certe caratteristiche di cantabilità e di pulizia del suono che effettivamente risultano verificabili in maniera ottimale attraverso lo strumento di origine viennese (anche se di dimensioni ben maggiori di quelle dei pianoforti utilizzati da Schubert, per non parlare della più moderna tecnica costruttiva che fa uso tra le altre cose del telaio in ghisa in un unico blocco).
Sta di fatto che il suono del Bösendorfer, una volta superato lo stupore dei primi momenti di ascolto, è davvero più indicato per questo tipo di repertorio ed è particolarmente affascinante nel registro grave, risonante ma molto nitido. Schiff ha poi ritenuto opportuno fare precedere l’esecuzione delle tre sonate da alcuni brevi interventi esplicativi che erano in alcuni casi molto interessanti, con accenni a similitudini che tiravano ad esempio in causa il Mozart della Sonata K 310. La parola dell’esecutore, per quanto illuminata, toglie un pizzico di sacralità al rito concertistico, è vero, ma in questo caso occorre porre sulla bilancia i pro e i contro dell’operazione, che è stata seguita con vivo interesse dal pubblico.
L’elemento più notevole che ha contribuito al successo della serata – nonostante la lunghezza forse eccessiva del programma – risiedeva tuttavia nella scelta antologica compiuta da Schiff, che verteva su tre momenti di straordinario interesse nel complesso sonatistico schubertiano, e nella accresciuta partecipazione del pianista verso i contenuti più esplicitamente narrativi di queste sonate. Si trattava di tre delle undici sonate schubertiane compiute, le uniche tre pubblicate con numero d’opera vivo l’autore, ossia le opp. 42, 53 e 78. Nella definizione della D 845 (l’opera 42) non abbiamo potuto esimerci dal ricordare la dirompente esecuzione che ne dava Pollini, vissuta in un contesto temporale che trascende quello tipico dell’epoca di Schubert. Il pianista milanese tende sempre a proiettare qualsiasi lettura in un universo di cose assolute nel quale l’osservanza stretta di sonorità filologiche non viene contemplata e il conseguente specifico pianistico subisce un effetto di amplificazione (mirabile per l’ascoltatore !) che traduce le valenze originarie del segno in qualcosa di trascendente, fin dai tempi del suo Bach e del suo Mozart. Schiff è da questo punto di vista certamente molto più cauto (e come dargli torto?) e ci ha ricordato più il pudore espressivo con il quale questa sonata veniva affrontata da Kempff, di cui si ricorda una magnifica esecuzione alla Scala negli anni settanta. Qui, come nel resto del programma, la visione di Schiff è certamente veicolata al meglio tramite le sonorità del pianoforte prescelto, che permette di captare molti dettagli di registro che scompaiono o sono difficilmente percepibili sullo Steinway o su un pianoforte giapponese di alto livello.
Ne esce in altre parole una visione ricchissima di significati di queste sonate schubertiane, che ha raggiunto momenti di particolare fascino, ad esempio, nell’Andante dalla già citata Sonata in la minore e nel finale di quella in re maggiore (D 850, op.53). Forse anche per contenere la durata del programma entro limiti accettabili, la lettura della grande Sonata-Fantasia in sol maggiore (D 894, op.78) è proceduta attraverso una scelta di metronomo più mossa del consueto, scelta che ha forse tolto quel carattere ieratico proprio del primo movimento. Grande successo e notevole concentrazione da parte del pubblico, terrorizzato dalle particolari raccomandazioni enunciate dallo speaker fuori onda prima dell’inizio del recital. Raccomandazioni che peraltro non hanno potuto evitare un singolo squillo ripetuto di cellulare, per fortuna a programma già avanzato, cosa che non ha provocato rimostranze da parte dell’esecutore, già più di una volta deciso a interrompere il programma in casi simili. Né è stato il cellulare a provocare un lieve vuoto di memoria durante l’esecuzione del programma, del tutto irrilevante soprattutto se si pensa all’enorme impegno psicofisico richiesto da un impaginato così lungo e impegnativo.