di Luca Chierici
I milanesi e i torinesi hanno avuto l’opportunità di ascoltare, come ultimo elemento di questa stagione settembrina di MiTo, un concerto tenuto da Leif Ove Andsnes con la formazione della Mahler Chamber Orchestra, cosa che è avvenuta quest’anno anche in altri luoghi (lo stesso programma era apparso in rete da Londra nello scorso agosto).
Stesso impaginato interamente mozartiano, con due Concerti molto importanti e famosi, quello in mi bemolle maggiore K 482 e quello in do minore K 491, separati dall’esecuzione della “Sinfonia di Praga”, la K 504 diretta dal Concertmaster dell’orchestra, Matthew Truscott. La “Mahler” è orchestra collaudatissima, nata sotto gli auspici di Claudio Abbado e non ha certo bisogno di presentazioni, così come non ne ha bisogno il pianista norvegese, classe 1970, da tempo inserito nel novero dei solisti più seri e preparati del nostro tempo. Una postazione che si è conquistato con notevole impegno e perspicacia, senza bisogno di vincere concorsi particolarmente importanti e puntando all’inizio su una saggia riscoperta del repertorio nazionale norvegese – leggi Grieg – spogliato da una a volte fastidiosa connotazione popolare che ne aveva limitato il ruolo non secondario nella storia della musica del Secondo Ottocento.
La serata si è svolta sotto i migliori auspici, con una affluenza di pubblico notevole per questi tempi e una conduzione dell’impaginato forse un poco proibitiva per un uditorio non esattamente popolato da giovanissimi. Si intende dire che l’esecuzione dei tre titoli in programma senza rispettare il tempo per un ragionevole intervallo e con la presenza di maschere che minacciavano il pubblico di non azzardarsi a uscire dalla sala (non era questione di assaporare deliziosi aperitivi, ma almeno di potersi recare nei bagni dell’auditorium) non rappresentava il modo migliore per godersi in santa pace l’impegnativo programma. Programma che – a parte l’incommentabile, meravigliosa essenza dei capolavori eseguiti – ha forse avuto due soli torti. Il suono molto intenso dell’orchestra spostava visibilmente la collocazione dell’ultimo Mozart in un ideale empireo molto lontano dai correnti usi seguiti da orchestrine o anche grandi orchestre in ogni dove seguendo un canone fin troppo ricercato di “autenticità” dei volumi e del fraseggio. Sbagliano queste ultime ma forse in molti momenti si sarebbe gradita una presenza meno invasiva in termini sonori. Andsnes, che non è certo pianista muscolare, si è trovato quindi, anche per il suo doppio ruolo di pianista e direttore, a gettarsi spesso in un gioco virtuosistico che ha lasciato spazio minore a un lavoro di cesello pure richiesto dai famosi pezzi in programma. E lo stesso pianista ha a nostro parere peccato nello scegliere cadenze che presumiamo siano sue nel caso di due numeri che purtroppo sono privi degli originali mozartiani.
È proprio nel caso dei K 482 e 491 che l’ascoltatore piange l’assenza di intermezzi di mano dell’autore, cadenze e fermate che avrebbero sicuramente gettato una luce di genio sul già assolutamente geniale materiale melodico e armonico dei due Concerti. Ci sono in letteratura molti esempi di cadenze scritte da autori di non secondaria importanza, dal quasi contemporaneo Hummel al novecentesco Britten, ma confessiamo – nel caso dei concerti in questione – di non amare nemmeno uno di questi esemplari, eccezion fatta per qualche graziosa trovata da parte di Nikita Magaloff nel K 482. Tanto da meditare sulla caratteristica molto peculiare di questi stessi concerti, ricchi di un materiale musicale bellissimo quanto difficile da riassumere in termini improvvisativi. E le scelte di Andsnes ci sono sembrate piuttosto insignificanti, anche se per fortuna non raggiungono i livelli di bruttezza di quelle di Britten (ascoltare per credere).
In ogni caso il pubblico ha apprezzato questo impaginato raffinatissimo, completato dall’esecuzione della Sinfonia K 504 tenuta saldamente in mano dall’orchestra e dal suo primo violino. Sia nella Sinfonia che nei due concerti grande parte hanno i fiati, che rappresentavano forse la parte più fascinosa nello strumentale della “Mahler”. Bis d’addio, l’Andante ultra-famoso dal Concerto K 467.