di Luca Chierici
L’inaugurazione del “Quartetto” milanese con un progetto su larga scala che prevede l’esecuzione delle sinfonie beethoveniane dirette da Daniele Gatti alla testa della rinata Orchestra Mozart nasce sotto i migliori auspici, come era lecito attendersi da un programma simile e dalla presenza di un folto pubblico di aficionados.
Serata al Conservatorio, dove quindi si possono apprezzare al meglio le sonorità di una orchestra, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e si è potuti tornare alla presenza di un direttore che come minimo è in pole position per una futura presenza stabile alla Scala, essendo egli un musicista con una enorme esperienza, carisma e capacità di relazione con gli elementi delle compagini da lui dirette. Forse non tutti ricordano come Gatti abbia vissuto una lunga esperienza lavorativa alla testa del Comunale di Bologna, dell’Orchestre National de France fino al Concertgebouw, scandagliando a fondo tutto o quasi il repertorio fondamentale del’800 e del ‘900. E i suoi interventi alla Scala sono sotto gli occhi di tutti così pure come, in tempo di pandemia, i cicli sinfonici brevi a capo de La Fil a suon di Brahms e Schumann. Per la cronaca Gatti aveva già diretto, in occasione del centocinquantesimo anniversario della Società del Quartetto, un bel concerto con la Mahler Chamber Orchestra nel 2013, ivi inclusa nel programma l’Eroica di Beethoven.
Anni fa, nel corso di una intervista che Gatti ci aveva rilasciato durante il Festival di Verbier, dove dirigeva per la prima volta l’orchestra giovanile stabile proprio nell’Eroica, il direttore aveva confidato di aver dovuto lavorare molto “per cercare di prosciugare il linguaggio, di andare all’essenziale e frenare certi ardori giovanili tipici degli orchestrali che non hanno una vita di esperienze alle spalle”. Con la Mahler prima e con l’Orchestra Mozart oggi ovviamente questo problema non si poneva, e proprio il connubio tra le intenzioni del direttore e le naturali possibilità dell’orchestra spiega alla fine il successo globale della serata.
Non tutto però ci ha convinto. Nelle Metamorphosen Gatti ha proposto una interpretazione che in parte trasformava il carattere del capolavoro straussiano in una sorta di poema sinfonico. Sui connotati di Metamorphosen non vi sono ombre di dubbio: è uno studio per 23 archi solisti, un lamento su una idea portante che solamente al termine della composizione si rivela essere il tema fondamentale dell’Adagio dell’Eroica beethoveniana. Questa idea viene sottoposta a una forma di variazione continua (una Metamorfosi, appunto) attraverso una costruzione in tre parti anticipata da una breve introduzione (Adagio ma non troppo) e seguita da una coda. L’appunto finale scritto in partitura (“In MEMORIAM!”) è evidentemente una dichiarazione luttuosa sulla fine della cultura tedesca, una sorta di “Mondo di ieri” di Zweig posto in musica, una straziante confessione di rimpianti. Ma ciò non fa di Metamorphosen un poema sinfonico, un pezzo di musica descrittiva e questo va tenuto ben presente dal concertatore, che deve sempre rispettare il filo conduttore analitico della partitura. Gatti ha voluto intendere il pezzo in maniera molto personale, seguendo più il cuore che le indicazioni della partitura stessa, che partono innanzitutto da un “Adagio ma non troppo” forse eccessivamente allargato dal tactus impresso dal direttore e intendendo le indicazioni agogiche in senso emozionale, anche quando rarissime diciture come “appassionato” rimangono indicazioni di spirito, non di cambiamento di tempo. Il raggiungimento di momenti di climax espressivo in altre partiture straussiane come Tod un Verklärung era stato nel recente passato un motivo di pregio nelle esecuzioni del nostro direttore ma, lo ripetiamo, Metamorphosen nasconde un altro tipo di complessità che non va sottovalutata. Per quanto riguarda l’Eroica posso solo notare che la risposta dell’Orchestra Mozart – che ha parti eccellenti come il bravissimo clarinetto – non è stata del tutto alla pari con le volontà del direttore e anche qui la concezione generale della partitura era tale da dar luogo a personalizzazioni che stranamente Gatti non si è mai concesso in Schumann o Brahms, autori certamente meno “assoluti” di Beethoven e maggiormente passibili di lievi variazioni interpretative. Successo come si diceva calorosissimo che ci fa bene sperare nelle successive puntate di questo ciclo beethoveniano.