di Attilio Piovano
E dunque, dopo l’ampia recensione dedicata alla serata inaugurale, su queste stesse colonne, nell’impossibilità di riferire con ampiezza dell’intero ‘blocco’ dei concerti torinesi di questa edizione 2023 del Festival MiTo Settembre Musica – e sono stati davvero molti, in massima parte di alto livello – ecco una rassegna in merito a quelli seguiti: quantomeno qualche riflessione critica circa gli appuntamenti di maggior spicco, quasi diario di bordo, attingendo dal ‘calepino’ dei preziosi appunti ‘fissati’ durante gli ascolti live.
Le orchestre, innanzitutto. E allora successo a dir poco strepitoso per la Royal Philharmonic Orchestra che la sera del 15 settembre 2023, al Lingotto, diretta dalla mano esperta di Vasily Petrenko, ha offerto una superba e indimenticabile interpretazione dei musorgskijani Quadri da una esposizione come raramente accade di ascoltare. La compagine si conferma una delle migliori al mondo in assoluto, per bellezza di suono, oltre che per perfezione tecnica di tutte le sue sezioni. Petrenko mette in luce con chiarezza estrema una quantità infinita di dettagli, timbrici, di fraseggio e via elencando, tempi giusti, un range di dinamiche impressionante, una vera lezione di stile: intimismo e magniloquenza, possanza sonora e delicatezza estrema, insomma una gioia per le orecchie coronata a fine serata da un pirotecnico bis nel segno di Rossini, evidente hommage all’Italia, e si è trattato ovviamente della notissima Danza dai ritmi sfrenati di Tarantella proposta con un pizzico di comprensibile gigionismo, unica captatio benevolentiae, al termine di un concerto superlativo. Che si era aperto con una prima italiana, vale a dire l’esecuzione di Icarus di Lera Auerbach (classe 1973), pagina suggestiva, con quella rapinosa alternanza di sezioni animate, dal denso spessore timbrico e passi invece di estrema rarefazione: a delineare, con linguaggio comunicativo ed immediatezza emotiva, un clima tragico (in organico anche la rarità del Teremin). In programma poi anche il violinistico e inossidabile Concerto op. 35 di Čajkovskij eseguito in maniera impeccabile dalla beniamina del pubblico Julia Fischer. Tecnica solidissima, perfezione assoluta e appropriatezza di stile, moderato appeal e sorvegliato magnetismo, sempre controllatissima, sicurezza sbalorditiva nel finale velocissimo, struggente cantabile nella melanconica Canzonetta imbevuta di sconforto. Un’interpretazione che si direbbe apollinea, lungi dal dionisiaco procedere, esagitato e appariscente di altri solisti. Gradito bis, il paganiniano Capriccio n. 17.
Tutto invece sul versante iberico il programma proposto dall’Orchestra Sinfonica di Milano diretta con esuberanza davvero eccessiva da Josep Vicent. E allora ecco di De Falla La Vida Breve (Danza) e una selezione dalle due suites del Sombrero de tre picos. Tutto molto sgargiante (troppo, a dire il vero), tutto sopra le righe, col rischio di appiattire (così nella pur trascinante Farruca e nella conclusiva Jota). Occorreva maggiore attenzione alle dinamiche, ai fraseggi, ai colori, evitando di porre ogni elemento in primo piano. De Falla infatti non è solamente folklore e colorismo, bensì anche sfumature, delicatezze e queste si sono inesorabilmente perse. Anche del rimskijano Capriccio spagnolo (per il quale, come in Schéhérazade, occorre un ‘vero’ violino solista e non già una pur valida prima parte) il direttore ha privilegiato solamente il versante spettacolare ed effettistico. Un concerto, non a caso, salutato da deliranti applausi a fine serata, ai quali il direttore ha risposto proponendo Oblivion di Piazzolla di cui ha ben colto lo struggente e sensuale languore (ma avremmo voluto più eleganza di fraseggi). A centro serata, nel fascinoso (ma a nostro avviso eccessivamente sopravvalutato) Concierto de Aranujez di Rodrigo dai profili neoclassici, trionfo personale per il chitarrista Pablo Sáinz-Villegas, un fuoriclasse assoluto che ha superato se stesso nel bis, l’impervia e spettacolare Jota di Francisco Tarrega.
Il giovanissimo direttore Riccardo Bisatti, dalla carriera ormai avviata, si conferma un talento incredibile (andrà seguito con grande attenzione negli anni a venire): alla guida delle Orchestre dei Conservatori di Torino e Milano, riunite per l’occasione, ha mostrato una singolare capacità di concertazione ottenendo eccellenti risultati dalla doppia compagine che annovera forze giovani, ma già ‘professionali’. Il programma spaziava da Rossini (Ouverture dall’Italiana in Algeri, cui Bisatti ha impresso la giusta brillantezza e un calibratissimo dosaggio nel famigerato crescendo) alle Danze popolari rumene di Bartók affrontate con scrupoloso rispetto metronomico, nonché spogliandole di quegli eccessi fonici che talora finiscono per snaturarle, e allora ecco i passi onirici e per contro l’energetica allure dove occorre. E ancora: la delicatezza melanconica e un poco frale dell’elegante Pavane di Fauré, il brio, la sciolta snellezza e tutta la verve necessarie per le mozartiane Nozze di Figaro (ma senza eccessi), il giusto clima mercuriale per lo Scherzo dal Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn dalle aeree trame polifoniche. Quanta grazia nella Valse triste del finnico Sibelius di cui Bisatti ha centellinato le atmosfere rarefatte infondendovi peraltro souplesse ed elasticità, e ancora ammirevole il lavoro di ‘ripulitura’ della Danza degli spiriti beati di Gluck (versione Mottl), restituita alla sua giusta dimensione, dunque nitidezza e niente incrostazioni barocche. Apprezzata la recitazione di Lucia Miglietta, voce recitante al servizio di un pur bislacco racconto, in realtà semplice pretesto per collegare veri e propri evergreen musicali di cui sopra.
Del concerto dell’OSNRai diretta da Valčuha nella centralissima piazza San Carlo (9 settembre) occorrerà registrare l’impatto non da poco dinanzi a migliaia di persone. Impossibile valutare con correttezza, dall’infelice, scomoda e assai arretrata postazione che ci era stata assegnata, anche per via dell’amplificazione che tutto distorce, la portata del brano Red (da Color Field) di Anna Clayne, pagina pseudo minimal, con scrittura a fasce, tratti percussivi e zone ‘atmosferiche’. Così pure, per un concerto in piazza non si possono porre in atto i consueti parametri critici: è un bene, certo, che una folla inverosimile di pubblico, in buona parte non avvezza ai concerti di ‘classica’, si sia potuta accostare a Bernstein (Candide) come pure alla sempre cinematografica Sinfonia ‘Dal Nuovo Mondo’ e la speranza è che lo stesso pubblico ritorni poi nuovamente in sala, potendone apprezzare tutte le raffinatezze e i dettagli che Valčuha sa ben porre in essere. Gran mattatore Stefano Bollani, in una coinvolgente (e personalissima) esecuzione della gershwiniana Rhapsody in Blue, poi scatenatosi nelle improvvisazioni su America e più ancora impagabile nel ‘colto’ hommage al geniale Nino Rota. Festa grande e tutti contenti.
Deludente il recital dei ‘mitici’ King’s Singers, che invero mitici non sono più. Enorme peraltro il successo: di fronte a un programma che spaziava dagli arcaici Byrd (nel 400°) e Weelkes a Vaughan Williams, Elton John e Mary Poppins, il pubblico ha mostrato di apprezzarne specie le (pur modeste) gags applaudendo verosimilmente ‘alla fama’ del complesso, ignorando le défaillances di intonazione verificatesi e così pure – spiace dirlo – una certo appiattimento (sia dinamico sia timbrico e di fraseggi) sì da far rimpiangere la formazione di una ventina di anni or sono. Notevoli le emozioni provate invece – per restare in ambito corale – con l’Estonian Philharmonic Chamber Choir (dalla qualità elevatissima) e la Tallin Chamber Orchestra, invero assai inferiore quanto a granatura del suono. Risto Joost, con il significativo apporto della stupenda voce di Maria Listra, in grado di emettere pianissimi indicibili in regione acuta, ha diretto di Pärt L’abbé Agathon, per soprano e archi, sorta di apologo naïf, musicalmente screziato. A seguire la prima italiana del suggestivo Tübade hääl (The Sound of Wings 2022) di Tõnu Kõrvits per coro e archi ispirato al misterioso epilogo biografico di Amelia Earhart, aviatrice statunitense scomparsa nel 1937 in circostanze tuttora ignote, mentre a bordo del suo bimotore si accingeva al giro del mondo: pagina di innegabile fascino, specie timbrico, ancorché forse troppo dilatata, dall’eclettismo colto e raffinato.
Infelice scelta delle sede – il periferico e decentrato Teatro Monterosa dall’acustica inadeguata – per i veterani Canino e Ballista, in formazione di due pianoforti e pianoforte a 4 mani, impegnati in un programma monografico stravinskijano. E allora quanta raffinatezza, ironia ed eleganza nei deliziosi e neoclassici Tre pezzi e Cinque pezzi cosiddetti ‘facili’ che ovviamente tali non sono affatto (la spassosa Napolitana che pare Casella e l’irresistibile Galop), ma anche quanta fatica per far ‘digerire’ la riduzione dell’autore per due pianoforti del balletto Agon, francamente micidiale all’ascolto, senza l’apporto dell’orchestra e della coreografia. A conti fatti, dopo la piacevole (ma non geniale) Sonata per due pianoforti, il clou è stato con l’impegnativo Concerto per due pianoforti che i ‘vegliardi’ del pianismo hanno affrontato con una grinta da far invidia.
Sold out il 18 settembre per Alexandre Tharaud, figura di spicco del pianismo francese: pianista che, forte di ormai 25 anni di carriera e riconoscimenti internazionali ad alto livello, definire outsider è senz’altro una diminutio. In realtà non di solo virtuoso si tratta, bensì di un musicista a 360 gradi. Un recital specialissimo e davvero atteso, il suo; una mano incredibile e una fantasiosa capacità di ri-creare i timbri (e non solo). Ineguagliabile la sua interpretazione di una manciata di Préludes di Debussy, dopo le seducenti ‘fumisterie’ di Satie (Gnossiennes e una fragrante versione di Tharaud stesso della celebre Je te veux). Tocco delicato e morbido per Danseuses de Delphes sì da sprigionarne tutto il seducente arcaismo, una lettura giustamente simbolista per l’algida mestizia di Pas sur la neige, dinamiche inaudite e feroci in Le vent dans la plaine e nel tumultuoso Vent d’ouest e una efficacissima, ancorché personale visione della notissima Cathédrale engloutie posta a reagire con l’assai dissimile pianismo raveliano. E allora, per dire, due ‘concezioni’ se non opposte certo moto differenti quella dell’acqua posta in atto nella Cathédrale e quella dispiegata invece in Une barque sur l’océan (dai Miroirs) dei quali Tharaud ha evidenziato tutta la pregnanza. Vertici assoluti di magnetismo nell’Alborada dai ritmi sfavillanti, ove il solista ha raggiunto esiti prodigiosi, e risonanze arcane in Vallée des cloches. E poi i bis, soprattutto un abbacinante Scarlatti (la celeberrima Toccata in re minore dai percussivi ribattuti) rivisitato con una coraggiosa spregiudicatezza che pochi al mondo sono in grado di porre in essere, spaziando infine dall’universo della chanson francese alla musica da film, come da suo ultimo cd. Indicibile.
E ancora: le monografie pianistiche dedicate a Chopin, Beethoven, Albeniz, Rachmaninov, Prokof’ev, Schumann, Brahms, Ravel, Bach, Schubert, Gershwin, Debussy e Liszt con interpreti del calibro di Baglini, Albanese, Cominati, Andaloro, Armellini, Kravtchenko, Pace, Perrotta, Guaitoli, Giorgini & c. Le sorelle Labèque in abbinamento all’OFT, le canzoni di Paolo Conte, il Barocco secundum la Montis Regalis, una full immersion haendeliana con l’Accademia del Santo Spirito e molto altro: in una ridda di pomeriggi e serate che hanno dato del filo da torcere a chi, in preda a bulimia dell’ascolto, avesse inteso seguire ‘di tutto e di più’. Questo è MiTo Settembre Musica.
Gran finale la sera del 22 settembre, con la Filarmonica della Scala, ancora al Lingotto: Andrés Orozco-Estrada ha predisposto una vera e propria monografia incentrata sul ceco Dvořák. E dunque la sempre verde Settima che, pur non raggiungendo i vertici di Ottava e Nona, è pagina di indubbio appeal. Orozco-Estrada ne ha enfatizzato la cupezza, fin dall’esordio e così pure nel finale, conferendovi un carattere quasi tragico che la faceva apparire in bilico tra Brahms e certo Bruckner; bene poi l lirismo del Poco Adagio dall’incipit modaleggiante e così pure l’allure flessuosa da danza popolaresca dello Scherzo, e pazienza per qualche eccesso dinamico. In programma ancora di Dvořák il Concerto per violoncello op. 104, capolavoro assoluto dalla dimensione smaccatamente sinfonica, che Mario Brunello ha interpretato in maniera magistrale (in qualche tratto sovrastato dalla massa orchestrale): indimenticabili il tono elegiaco e la dolce mestizia del tempo lento e altresì la scintillante souplesse del festoso movimento conclusivo. Quale bis – coerentemente – ci si attendeva ancora di Dvořák, una Danza slava o perché no la sempre effettistica Polonaise da Rušalka. E invece ecco Rossini al fulmicotone (Barbiere) che ha sollucherato la folta platea, suggellando in un clima di esuberante eccitazione questa edizione 2023 di MiTo.