di Attilio Piovano
Festosa e applauditissima inaugurazione per MiTo, edizione 2023 – l’ultima a recare la firma della direzione artistica di Nicola Campogrande – a Torino, venerdì 8 settembre, presso l’Auditorium ‘Agnelli’ del Lingotto (la sera prima analogo trionfo a Milano).
Inaugurazione avvenuta nel segno del poliedrico Bernstein, del quale è stato proposto il divertente e smagato musical Wonderful Town in forma di concerto con sopra titoli (peccato che sia stata proposta la sola traduzione in italiano e non in contemporanea l’originale del libretto di Joseph Fields e Jerome Chodorov, con i testi di Betty Comden e Adolph Green.
E così pure peccato che il libretto non sia stato stampato nel programma di sala, un’occasione perduta). Un musical che alla première a Broadway nel febbraio del 1953 riscosse enorme successo. Protagonisti Orchestra e Coro del torinese Teatro Regio, guidati dalle mani esperte dell’ipercinetico ed esuberante Wayne Marshall (neo maestro del coro lo scrupoloso Ulisse Trabacchin, dal curriculum di alto livello, di recente approdato alla guida della compagine torinese, dopo che Andrea Secchi ha lasciato, chiamato a sua volta al corrispondente, prestigioso incarico presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia). Ad affiancare la compagine sinfonico-corale un pool di voci scelte; e allora il mezzosoprano Alysha Umphress (nei panni di Ruth Sherwood) e il soprano Lora Lee Gayer (ad impersonare la sorella, Eileen Sherwood) poi il baritono Ben Davis, il tenore Ian Virgo e il baritono Adrian Der Gregorian a dar corpo ai vari altri personaggi.
Una partitura – quella di Wonderful Town – che, composta in tempi strettissimi per le solite esigenze connesse all’industria dello spettacolo (ma accadeva già ai tempi di Rossini) non ha certo lo spessore e la pregnanza, per dire, di West Side Story o di Candide, ma che pure si lascia ammirare per la perizia tecnica del grande Lennie e per quel suo caratteristico mix di scaltrito cinismo e disarmante innocenza, nonché per il linguaggio, come è stato notato, intenzionalmente ‘semplificato’ e pur tuttavia mai banale o corrivo. E scusate se è poco. Insomma ne sortì un fascinoso pastiche stilistico, peraltro dai tratti originali nonostante occhieggi a generi e modelli ben riconoscibili, entro il milieu musicale statunitense degli Anni Trenta. Una «commedia musicale senza grandi pretese di impegno intellettuale», come è stato notato, che pure seduce e coinvolge.
La storia dello spumeggiante musical che non ha un solo istante di cedimento – in estrema sintesi – è quella delle due sorelle Ruth ed Eileen Sherwood, ragazze di provincia solo in apparenza ingenue e sprovvedute che, dal nativo Ohio, giungono a New York durante l’estate del 1935, scoprendo la vivacità incredibile della metropoli, decidendo di trasferirvisi e di tentare la fortuna. Ruth è un’aspirante scrittrice mentre la bionda e fascinosa Eileen vorrebbe diventare attrice. In bilico tra vicende più o meno rocambolesche (l’affitto di un monolocale nei pressi del rumoroso cantiere della metropolitana) e rigurgiti di nostalgia (il song «Ohio» venato di toccante spleen), le due ragazze, nonostante indifferenza e cinico opportunismo che le circondano, non si perdono d’animo e con un ottimismo tipicamente Made in Usa un po’ da celluloide, muovono alla conquista di New York. L’amore a far da sfondo, ora osservato con distaccato humour («Ways to lose a man»), ora con candore naïf e quasi verginale, in un caleidoscopio di contrastanti sfumature psicologiche; sicché c’è spazio per il cinismo disilluso dello ‘sfigato’ redattore Bob Baker la cui morale un po’ sommaria riguarda lo ‘spreco’ del talento ed il disincantato approdo di sedicenti artisti a mestieri banali e prosaici («What e Waste»), così pure ecco riemergere il vecchio trucchetto già operativo nell’opera buffa settecentesca, per cui più o meno capziosamente, un uomo interessato ad una delle due ragazze, finisce per corteggiare la sorella («A Little Bit in Love» dall’ironico incedere). E allora gags, scambio di ruoli, gelosie e via elencando. Tra i momenti più esilaranti il colloquiale e quasi nonsense «Conversation Piece» e così pure l’intervista realizzata da Ruth ad un gruppo di marinai, nella quale quesiti su sport, attualità ed abitudini quotidiane si mescolano ad improbabili domande («Cosa pensa delle mani di Stokowski») con effetto a dir poco straniante, grazie ad un vero e proprio scioglilingua che richiede bravura e maestria (e ascoltando veniva in mente Cathy Berberian); passi maggiormente intimisti («A Quiet Girl» dai tratti soft, quasi onirici, ed il coro maschile a bocca chiusa ad aggiungervi un pigmento speciale, un quid di coloristico quasi magico) si alternano a zone dai ritmi forsennati destinati a culminare, sempre entro la policroma cornice del quartiere di Greenwich Village, nel trascinante ballo dei marinai brasiliani appena sbarcati («Conga»). In un caotico e inarrestabile caos che ha del surreale e che a fine serata al Lingotto ha finito per coinvolgere il solitamente compassato pubblico sabaudo: molti in piedi a dimenarsi e cantare, incoraggiati dallo stesso direttore (che tra l’altro è un raffinato organista) simpaticamente rivolto verso il pubblico. E non manca nemmeno la presenza di uno spaccone giocatore di football (Wreck), la cui musica ha toni camerateschi e rudi («Pass the Football»).
Il più breve second’atto, dopo l’improbabile arresto di Ruth, nientemeno che per disturbo della quiete pubblica, non è che il prevedibile lieto fine «(It’s Love»), dopo una serie di rutilanti vicende. A trionfare sono prevedibilmente amore e ottimismo. Il clamoroso successo – nella finzione scenica – della canzone «Wrong note Rag», eseguito dalle due sorelle quasi a suggello della loro ‘ascesa’, è anche uno dei momenti musicalmente più interessanti ed armonicamente raffinati di una partitura tutta da ammirare e di cui godere pienamente. Specie se in presenza – come è stato a Torino – di una performance di alto livello, fin dalla pirotecnica Ouverture alla quale Marshall ha impresso una verve incredibile, sì da restituirne il clima incandescente e frenetico che dell’intero plot è poi la cifra prevalente, quasi l’emblema di New York, ovvero della Wonderful Town del titolo stesso.
Un’ora e venti di puro divertissement senza un solo istante di stasi. Ammirevole la duttilità dell’Orchestra del Regio, la brillantezza timbrica e la vigoria ritmica. Ottimo il Coro, ‘entrato’ nelle pieghe della partitura con una (apparente) naturalezza e nonchalance che aveva dello straordinario. Tutte di grande bravura le voci; gran mattatrice (anche per mimica e gestualità) Alysha Umphress alla quale ha ben tenuto testa Lora Lee Gayer. Bene anche il versante maschile del cast, qualche piccola perplessità per una impostazione un poco difforme (forse troppo ‘lirica’ con eccessivo vibrato) per Ben Davis, ma è un dettaglio di minima rilevanza entro un’esecuzione che ha conquistato la pur compassata Torino sin dal primo istante e della quale conserveremo a lungo graditi ricordi. Esecuzione della quale solo per ragioni di spazio non è possibile descrivere mille dettagli: per dire, la bellezza dello «Swing» di Ruth attorniata dagli abitanti di Greenwich Village, con quell’inizio a cappella ed un sound molto Old West.
Forse si sarebbe potuta calibrare meglio l’inevitabile amplificazione di voci e orchestra, questo sì, dacché certi ‘primi piani’ sonori parevano fin eccessivi, ma si tratta pur sempre di un musical e dunque i tradizionali parametri di giudizio non sono quelli di un melodramma o di una partitura sinfonica.
Una menzione infine per gli artisti del Coro del Regio, vale a dire i baritoni Marco Sportelli ed Andrea Goglio, i tenori Leopoldo Lo Sciuto e Luigi Della Monica, il mezzosoprano Daniela Valdenassi ed il soprano Eugenia Brayanova, tutti allineati su un ottimo standard qualitativo, impegnati ad impersonare poliziotti, abitanti del Greenwich Village, prima e seconda ragazza.