di Luca Chierici
Nel recensire su queste colonne un recital di Ivo Pogorelich tenuto a Milano nel 2017 a favore del Vidas, notavamo come vi fosse stato in lui un cambiamento piuttosto radicale che lo aveva portato – tra gli ultimi anni Novanta e un periodo situabile in un intorno di qualche anno fa – a operare delle scelte che tendevano a rallentare i tempi di esecuzione di musiche assai note fino a sgretolarne i contenuti architetturali ed espressivi.
Scelte non certo felici, che limitavano il piacere di ascolto e la comprensione dei propositi, e che per fortuna non intaccavano (o solo in parte) quelle che erano le caratteristiche più felici della sua arte: la qualità del suono, la perfezione del gioco pianistico, la personalità di un approccio alla tastiera che ricordava, pur con molti distinguo, gli esempi massimi di un Michelangeli o di uno Horowitz.
Pogorelich è ritornato l’altra sera, nel contesto del Festival MiTo, a proporre un programma relativamente curioso che aveva il suo punto di forza centrale negli Studi sinfonici op. 13 di Schumann, incastonati tra il Preludio op. 45 di Chopin e la Valse triste di Sibelius. Facile l’apparentamento tonale dei tre pezzi, i primi due in do# minore accostati alle indecisioni cromatiche del famoso luogo di Sibelius, anche se non questo era il motivo di maggiore fascino della serata. Che è risultato essere il rinnovato dominio da parte di Pogorelich di tutti i maggiori elementi del proprio trascendentale pianismo, con un controllo assoluto dei piani sonori e la capacità oggi direi unica di trarre dallo strumento un volume di suono percepibile in una sala di grandi dimensioni e purtuttavia ricco di sfumature di incredibile fascino. Il pianoforte di Pogorelich suona, quello di molti suoi colleghi più giovani mormora.
Gli Studi sinfonici erano stati presentati nella stessa sala, per le Serate Musicali, nel novembre del 1994, ossia ancora nel periodo di massimo splendore dell’arte dell’intrigante Ivo. La scelta dell’inserimento dei cinque numeri postumi, recuperati da Brahms, era la stessa, ossia subito dopo l’esposizione del tema. Una scelta intelligente, che teneva conto della particolare novità di linguaggio che probabilmente aveva convinto l’autore a non inserire i medesimi nel contesto della pubblicazione ufficiale. Novanta secondi in più è stata la durata di questi Studi nell’esecuzione odierna rispetto a quella di quasi trent’anni fa: una inezia su un totale di oltre quarantatré minuti. Quella che pareva una minima tendenza a frammentare il discorso in frasi a se stanti era solamente un’impressione perché il riascolto della registrazione di quell’evento remoto – che ci era parsa già di importanza assoluta – non indicava un mutamento in tal senso. Pogorelich si è qui riconfermato in possesso di tutte le proprie straordinarie prerogative e ha potuto mettere in grado le più giovani generazioni di ascoltatori di godere tutti i dettagli di un pianismo immacolato.
La presenza degli altri brevi pezzi in programma non è servita più di tanto a confermare l’eccezionalità della serata: a un Preludio op. 45 suonato questa volta più velocemente di quanto fatto ancora nel Novantaquattro e sette anni prima alla Scala, si è aggiunta la mortifera seppure affascinante Valse di Sibelius, di inserimento se non vado errato più recente nel repertorio del pianista e ancora la Barcarola e il Notturno op. 62 n. 2 di Chopin, bis certamente bellissimi e anch’essi suonati da padreterno. Successo di notevolissima portata e augurio di potere risentire ancora a lungo questo artista straordinario.