di Cesare Galla
Una cinquantina di anni fa, Massimo Mila segnalava come lo snobismo culturale italiano, che lungamente aveva considerato Verdi un musicista “inferiore”, avesse cambiato verso.
«Oggi la situazione è profondamente mutata. Di quei nemici di Verdi non c’è quasi più traccia e Verdi va difeso dai suoi amici. Lo snobismo culturale ha cambiato campo e si è fatto verdiano. Giovani letterati, poeti raffinati, strutturalisti e filosofi esistenziali, musicisti d’avanguardia e pittori astratti, tutti delirano per Verdi. E quasi a riparazione del disprezzo in cui prima lo tenevano, ora vorrebbero persuaderci che l’arte sua è tanto più grande quanto più incolta e primitiva. Questo è lo snobismo di prima col segno cambiato ed ha la stessa origine: l’incomprensione dell’arte di Verdi».
Il musicologo torinese poneva queste polemiche considerazioni nell’introduzione a Il giovane Verdi (ERI, 1974), volume che dagli esordi del compositore bussetano giunge cronologicamente fino alla cosiddetta “trilogia popolare”, escludendo quindi anche alcuni dei titoli che lo stesso autore considerava frutto dei troppo citati “anni di galera”, che secondo la definizione datane dal musicista si spingevano addirittura fino al 1856.
Archiviate dalla storia le schermaglie snobistiche di cui parlava Mila, se la situazione non appare granché mutata è perché prevale oggi il populismo pseudo-culturale tipico dei social network, il luogo insieme astratto e molto presente nel quale Musicofili & Melomani assortiti discettano incessantemente e quasi sempre apoditticamente. Mezzo secolo dopo, ci si dovesse basare su certi “profili”, la situazione è proprio la stessa polemicamente additata da Mila: «I neoverdiani odierni, convinti che fossero tutti sordi o scemi quelli che vissero prima di noi, non prestano alcuna attenzione ai risultati della critica verdiana e considerano frutto di chissà quale colpevole incuria […] quella gerarchia di valori che si è spontaneamente stabilita tra le opere di Verdi».
Il discorso torna utile a proposito de I due Foscari (Roma, teatro Argentina, 3 novembre 1844), che sono riapparsi alla Fenice dopo un’assenza durata 46 anni (cioè dall’epoca in cui le considerazioni di Mila erano fresche di stampa) a rimpinguare per quanto possibile una presenza così esigua da rendere inevitabile l’etichetta di “rarità”: si tratta della quinta apparizione in assoluto di questo titolo nel maggiore teatro veneziano dal 1846 (quando per la prima volta vi venne rappresentato) a oggi.

Tratta dall’omonima tragedia storica di Byron, quest’opera (il libretto è di Francesco Maria Piave) si presenta come un dramma basato sull’insanabile contrasto fra giustizia e potere: il giovane Foscari, ingiustamente accusato di un delitto, si crede anche affettivamente abbandonato dal padre, doge in carica da decenni, che non prende le sue difese nel corso del processo davanti al Consiglio dei Dieci. In realtà, padre e figlio sono coinvolti in quello che ben presto apparirà come un riuscito “colpo di Stato” che fin dall’inizio ha lo scopo di deporre il doge legittimamente eletto Francesco Foscari, come accadrà solo in sottofinale. Per entrambi non ci sarà bisogno che entri in azione il boia: prima il figlio e poi il padre cadranno morti, in pratica sopraffatti dal dolore e dall’angoscia.
La vicenda si dipana rapidamente, grazie anche al fatto che questa è un’opera di tre personaggi. Oltre ai due del titolo, ha un ruolo fondamentale solo la moglie del più giovane Foscari, Lucrezia Contarini. Dal punto di vista formale, quindi, arie, duetti e concertati riguardano le tre vittime della macchinazione, in una Venezia decisamente cupa, quasi opprimente. E la drammaturgia evolve – proprio come nella tragedia greca – per eventi che avvengono altrove e in scena sono solo annunciati, riferiti. Di un’eccessiva uniformità della “tinta” era consapevole anche Verdi, a dimostrazione del fatto che il compositore poco più che trentenne aveva comunque già chiaro, a prescindere da ogni altra considerazione, quale dovesse essere la “ricetta” di varietà e articolazione espressiva per rendere un melodramma gradito al pubblico. Ascoltati oggi, in ogni caso, lungi dall’essere un capolavoro I due Foscari ci appaiono però come un interessante, a volte coinvolgente “laboratorio” nel quale il musicista appare intento a combinare stili vocali, soluzioni strumentali, dispositivi drammatico-musicali atti a creare comunque un contesto adeguato alla cupa vicenda. E sia pure con una certa quale “rigidità”, che ancora non riesce a scolpire nelle forme tradizionali, se non con qualche approssimazione, il senso della drammaturgia. Cartoni preparatori, si potrebbe dire, di un affresco che verrà compiuto più tardi (e basti pensare alla gran scena della morte di Francesco Foscari, che molti studiosi considerano “germinale” rispetto alla conclusione di Rigoletto).
Nel senso della restituzione di un “work in progress” sembra procedere anche l’esecuzione musicale guidata da Sebastiano Rolli: a volte fin troppo tipicamente “Verdi prima maniera” per sottolineature ritmiche banali e sovradimensionamento dei volumi sonori, altrove ben altrimenti dettagliata, con interessante attenzione alla ricerca timbrica. Spesso, e specialmente nel Finale ultimo, il fraseggio è in grado di dare evidenza al fatto che Verdi già tenta di fare dell’orchestra in certo modo un personaggio dalle molte e suggestive sfumature, come già aveva inteso anche nei precedenti Lombardi alla prima Crociata. Un’aspirazione varie volte espressa in lettere che sono chiara testimonianza di quanto l’equivoco esecutivo basato sull’energia rumorosa fine a sé stessa fosse sgradito al compositore.

La compagnia di canto è parsa di alto livello e spesso di intrigante efficacia stilistica. Il discorso vale specialmente per il baritono Luca Salsi, magistrale nel dare al personaggio di Francesco Foscari le sfumature di un canto tutto giocato sulla parola, alieno da manierismi retorici a effetto. Il personaggio ne esce a tutto tondo sia nella sofferenza esistenziale che nel senso del tradimento istituzionale subìto, grazie anche a una gamma dinamica che anima dall’interno la sontuosa linea di canto. Una Lucrezia Contarini tragica e disperata, come da libretto e soprattutto da partitura, è apparsa il soprano Anastasia Bartoli, voce imponente e quasi sempre ben controllata, che non arretra di fronte alle asperità della coloratura drammatica e anzi le risolve con notevole effetto in chiave espressiva. Il tenore Francesco Meli (Jacopo Foscari) non ha lesinato in disperata tensione, sottolineata dalla duttile efficacia teatrale del suo timbro morbido e sempre ben controllato, risolvendo la parte con desolata nobiltà di accenti. Ben assortito il gruppo dei comprimari, con Riccardo Fassi nei panni del “golpista” Jacopo Loredano, Marcello Nardis in quelli di Barbarigo e Carlotta Vichi come Pisana, dolente confidente di Lucrezia. Alla prova generale, cui si riferiscono queste note, il coro istruito di Alfonso Caiani si è proposto con crescente misura e incisività.
Lo spettacolo proveniva dal Maggio Musicale Fiorentino e ha finito per essere l’anello debole di una proposta comunque salutata da vivo successo. Lungi dall’addentrarsi nelle tematiche sottese al dramma (come si diceva: giustizia, potere, rapporti tra padre e figlio), il regista Grischa Asagaroff ha realizzato una narrazione statica e anodina, veneziana solo (e in parte) nei costumi a volte un po’ caricaturali (come quelli del coro al terz’atto) di Luigi Perego, autore anche di una scenografia basata su un parallelepipedo centrale le cui faticose rotazioni davano vita a spazi in teoria diversi, ma comunque generici. Completavano il quadro decorazioni di maniera (l’inevitabile Leone di San Marco) e sfondi neutri o banali (imperdonabile nella città della grande pittura rinascimentale e settecentesca, da Tiziano a Canaletto e Tiepolo, il cielo azzurro con nuvolette bianche dello sfondo), che hanno accompagnato la vicenda rendendola di gran lunga più manierata e polverosa di quanto non dicano la partitura e il libretto.
