Opera • Il titolo di Verdi e Boito ha un’atmosfera padana con le scene storiche del 1913. Tra una compagnia di giovani e l’equilibrata direzione di Rolli, spunta il protagonista del veterano Bruson, superbo attore ma cantante esausto
di Francesco Lora
SHAKESPEARE NELLA BASSA PADANA? C’è una continuità rasserenante tra l’autunno della campagna parmigiana, col sole del tardo pomeriggio smerigliato dalle prime nebbie e le distese agricole ormai prossime al riposo, e l’atmosfera del Falstaff andato in scena al Teatro Verdi di Busseto, nell’àmbito del Festival Verdi e per il Teatro Regio di Parma (cinque recite, 12-26 ottobre). Giuseppe Verdi e Arrigo Boito: la loro opera si tinge di terre verdiane all’aprirsi del sipario sulle vecchie scene del 1913, dipinte con un’arte prospettica oggi dimenticata, le quali profumano di un genuino antico, obbligano i tecnici a darci di chiodi e martello tra un quadro e l’altro, stagionano colori spennellati un secolo fa. Nei pochi metri quadri di uno tra i palcoscenici lirici più piccoli al mondo, sono un piccolo capolavoro di illusione ottica e un vincolo ad allestire Falstaff in modo tradizionale, nonché un’ispirazione inconsapevole di un altro allestimento pensato in chiave padana: il Falstaff di Giorgio Strehler ed Ezio Frigerio (regìa da una parte, scene e costumi dall’altra) per il Teatro alla Scala.
Tra le scene storiche e i costumi di Massimo Carlotto, una nuova regìa è stata firmata a Busseto da Renato Bruson, coadiuvato, forse non per caso, dalla stessa Marina Bianchi che aveva ripreso lo spettacolo di Strehler alla sua ultima apparizione milanese (maggio 2004). Una regìa scorrevole, fedele alla didascalia e alle aspettative, attenta al brio narrativo e ai dettagli visivi (con rare ingenuità: per esempio le gaie comari che stendono di persona il bucato anziché affidare la bassa incombenza alla servitù, e che soprattutto lo fanno su pali tanto rozzi da far rabbrividire d’orrore l’ombra teatrale di Elisabetta Tudor). Su tutta l’azione scenica domina il carisma di Bruson, risoluto nel voler incarnare egli stesso i panni di Sir John Falstaff alle prime due recite: il trucco, l’accento, il gesto sono quelli dell’attore consumato, e disegnano il personaggio con un’immediatezza, una minuzia, un’emozione commoventi. All’anziano baritono, però, la voce d’un tempo ha ormai voltato le spalle: se l’espressione è superba, se il fraseggio è pieno di volontà e se il timbro è ancora riconoscibile, l’intonazione, il volume e l’estensione latitano adesso in modo sconsolante, e alimentano rimpianti sui tempi che furono.
Intorno al protagonismo del vecchio leone, la compagnia di canto è tutta giovanile, tutta diligente, tutta lodevole. Il lavoro di squadra è encomiabile così come l’impegno di ciascuno, ma non vi si notano brillii particolari, e già all’indomani della recita è difficile, per chi recensisce, ricordare cosa vi sia stato di peculiare nel Ford di Vincenzo Taormina, nel Fenton di Leonardo Cortellazzi, nel Cajus di Jihan Shin, nel Bardolfo di Marco Voleri, nel Pistola di Eugeniy Stanimirov, nell’Alice di Alice Quintavalla, nella Nannetta di Linda Jung, nella Quickly di Francesca Ascioti e nella Meg di Valeria Tornatore. Terminata la lunga lista di personaggi e interpreti, onore e merito vanno riconosciuti all’altrettanto giovane direttore Sebastiano Rolli, che nel golfo mistico del teatrino dispone di un’orchestra ridotta nell’organico, ma sa nondimeno trarvi i momenti d’impeto accanto a quelli di sapore cameristico, e che segue ciascun cantante respirando con lui e soppesandone ogni sillaba e nota. Solida, dunque, la resa della Filarmonica del Teatro Regio di Parma, così come quella del relativo Coro preparato da Martino Faggiani. E lunghi applausi del selezionato pubblico a questo Falstaff in miniatura.
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