In scena al Regio l’opera pucciniana in una nuova coproduzione con il Comunale di Bologna, per la regìa di Daniele Abbado. La voce di Maria José Siri delinea una protagonista d’impatto
di Attilio Piovano foto © Ramella & Giannese
UNA TOSCA INDUBBIAMENTE DI QUALITÀ E DI CLASSE, quella vista al Regio di Torino la sera di martedì 9 febbraio 2016, sia pure con qualche neo specie sul piano registico e quanto a direzione musicale. E allora innanzitutto i punti di forza dello spettacolo, andato in scena dinanzi ad una sala gremitissima (con la determinante sponsorizzazione di Reale Mutua), e si tratta di allestimento del Regio frutto di coproduzione col Comunale di Bologna (produzione originale: Hyogo Performing Arts Center di Nishinomiya, Giappone).
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Applaudita meritatamente Maria José Siri che ha saputo sbozzare una Tosca credibile ed autorevole sia sul piano vocale (un vero trionfo in «Vissi d’arte» cantata con eleganza e ottime emissioni, molte sfumature e sincera partecipazione emotiva), sia sul piano scenico, con momenti di forte impatto, già nel second’atto al cospetto del ripugnante Scarpia e poi nel finale dove ha raggiunto vertici di tragicità obiettivamente efficaci. Molto bene Roberto Aronica nei panni di Cavaradossi, appena qualche impercettibile esitazione in «Recondita armonia», è poi andato in crescendo convincendo appieno, il clou ovviamente nella toccante «E lucevan le stelle» che sempre innesca i lucciconi e la commozione; vocalità di gran classe, presenza scenica, insomma un Cavaradossi comme il faut. Davvero molto bene Carlos Álvarez, sul piano vocale, quanto a Scarpia: senza eccessi veristi (e spesso accade di incontrare baritoni che urlano e sbraitano), molta finezza psicologica e una vocalità davvero autorevole.
Impianto scenico sostanzialmente unico, ma di classe, con piattaforma girevole a centro palco (peccato non aver valorizzato i ponti mobili del Regio che sono un vanto tecnologico) e bianche colonne neoclassiche
Sul piano scenico lo avremmo voluto appena un poco più insinuante, più perfido, più cattivo, è parso fin troppo come dire ‘signorile’ per la parte di uno tra i personaggi moralmente più ripugnanti in assoluto dell’intera storia del melodramma. Un po’ eccessiva poi la sua recitazione nelle avances nei confronti di Tosca, ma poi muore con grande teatralità. Assai gradito il sagrestano di Roberto Abbondanza che ha saputo variare le corde di recitazione del personaggio con finezza ed intelligenza, evitando di calcare troppo sul comico e sul popolaresco e per contro evitando di farne un servile e vigliacco come talora accade; bene dunque, grazie ad una bella voce e ad una indubbia intelligenza interpretativa. Molto credibile e ‘partecipato’ l’Angelotti del valido Gabriele Sagona, incisivo e a tutto tondo.
Bene i comprimari, tutti allineati su un buon livello e dunque l’incisivo e corretto Luca Casalin (Spoletta, figura drammaturgicamente di impatto), Nicolò Ceriani (Sciarrone) e Lorenzo Battagion, un carceriere che al contrario di altri prende molto sul serio, come è giusto, la sua piccola (e pur drammaturgicamente rilevante) parte in apertura del terz’atto. I consueti problemi di intonazione e anche di poca udibilità (data la collocazione fuori scena) per il pastorello disimpegnato da Fiammetta Piovano (che non è legata da alcuna parentela con chi firma queste note, la precisazione è d’obbligo).
Dal podio Renato Palumbo ancora una volta, occorre dirlo, punta su volumi sonori spesso eccessivi, con turgori e fortissimi che in più d’un caso finiscono per coprire sciaguratamente le voci (già in parte penalizzate da una scenografia pur gradevole ma assai arretrata sul palco). Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma ovviamente non c’è spazio per elencarli. Tempi ora sciolti e aitanti, ora singolarmente dilatati, col pregio di far emergere, come generosamente osservava, con finezza, una giovane e sensibile ascoltatrice, gli innegabili legami espressivi con altre figure femminili dell’universo pucciniano, a fronte di molti tratti in cui a prevalere era invece un eccessivo empito sinfonico. L’orchestra lo ha assecondato fin troppo bene fornendo una prova di rilievo e come sempre puntando su una ineccepibile professionalità collettiva anche se, ripeto, avremmo preferito più finezza, più delicatezza e più leggerezza in vari momenti dell’opera.
Impianto scenico sostanzialmente unico, ma di classe, con piattaforma girevole a centro palco (peccato non aver valorizzato i ponti mobili del Regio che sono un vanto tecnologico) e bianche colonne neoclassiche, impianto firmato da Luigi Perego che sigla anche costumi in bilico tra primo ’900 e anni Venti. Efficace la scena del Te Deum con la piattaforma che ruota e il coreografico movimento di chierichetti e prelati. Bella l’idea dello specchio inclinato per il second’atto col tavolo gradevolmente asimmetrico, specchio che poi scompare lasciando intravedere una fuga di sovrapporte dai quali esce Tosca dopo aver compiuto i gesti di rito (e dunque i candelieri ai piedi del cadavere, ma anche il coltello gettato a terra e le mani ripulite sommariamente nella tovaglia). Per carità, nulla di nuovo sotto il sole, o meglio nel chiuso della spazio teatrale, tutte cose in buona parte già viste; così come le proiezioni video in apertura del terz’atto (Luca Scarzella) sapevano di deja vu. Buone le luci di Valerio Alfieri (pur con alcune stranezze e allora certi fucsia, certi viola e perfino un giallo-verde acido che poco si armonizzavano con altri assai più riusciti momenti).
La regìa di Daniele Abbado muove bene i personaggi e si rivela di impatto, anche se alcuni dettagli (nemmeno troppo secondari) hanno destato perplessità: per dire, coraggiosa, o se si preferisce incauta e bizzarra l’idea di far cantare «Vissi d’arte» ad una Tosca sdraiata a terra; francamente inaccettabile poi far morire Tosca di presunto colpo apoplettico, dacché stramazza a terra: eh no, signori miei, tutto si può fare in teatro, ma Tosca DEVE, permettetemi, deve gettarsi dagli spalti di Castel Sant’Angelo. E pazienza se il ritratto della Vergine richiedeva il binocolo per essere apprezzato, ma Tosca che si abbatte sul palco in molti non l’hanno proprio gradita.
Bene il coro del Regio ed il coro di voci bianche istruiti come sempre con professionalità e scrupolo da Claudio Fenoglio. Applausi assai convinti a fine serata, una serata che cadeva a 80 anni esatti dal rovinoso incendio che distrusse (nel febbraio del 1936, per l’appunto) il glorioso e settecentesco Regio, poi risorto nel 1973 con la nuova sala progettata dal geniale Carlo Mollino, tutta velluti rossi e coraggiosi viola per il soffitto, dominato – si sa – da una nuvola di stalattiti di plexiglas.
Nove le repliche sino a domenica 21 febbraio con un doppio cast (nella seconda compagnia Elena Rossi e Carlo Ventre impersonano Tosca e Cavaradossi mentre il perfido Scarpia viene disimpegnato da Claudio Sgura).
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