di Corina Kolbe foto © Bernd Uhlig
Quando l’amore diventa ossessione e disperazione, rischia di finire in tragedia. Con spaventosa regolarità i quotidiani riportano fatti di sangue, storie di intere famiglie annientate da tempeste di odio. Medea è uno degli esempi più antichi di una donna che uccide per passione, non risparmiando persino i propri figli. Immortalata nell’omonima opera lirica di Luigi Cherubini, la mitica figlia del re di Colchide continua ad accattivare il pubblico di oggi. E Maria Callas, per tanti anni l’incarnazione perfetta del personaggio sul palco, trova degni successori.
Protagonista in una nuova produzione appena presentata alla Staatsoper di Berlino, Sonya Yoncheva ha suscitato lunghi e meritati applausi, anche a scena aperta. Il soprano bulgaro, ormai festeggiato nei teatri d’opera più rinomati in tutto il mondo, ha incantato gli ascoltatori berlinesi con la sua voce possente ed espressiva, leggermente velata nelle note basse.
La messinscena sobria di Andrea Breth ha lasciato ampio spazio alla musica. Medea, che per amore di Giasone ha ucciso suo fratello minore e lo zio del marito, si vede tradita e abbandonata. Pur essendosi impossessato del Tosone d’oro solo con l’aiuto di Medea, Giasone vuole sposarsi con la figlia del re di Corinto, condannando aspramente i crimini commessi dalla moglie. Medea, consapevole di essere presto espulsa da Corinto e privata dai propri figli, vive il suo tormento in mezzo a contenitori di legno buttati in una specie di magazzino, dietro pesanti saracinesche che si alzano e abbassano.
In quest’ambiente brullo, con le scene disegnate da Martin Zehetgruber, si snoda la trama della tragedia, concepita da Cherubini come “opéra comique”, un’opera a numeri che oltre al canto include anche dei dialoghi parlati. Nel 1800, a soli tre anni dalla prima esecuzione in assoluto a Parigi, la Staatsoper ha visto la prima rappresentazione dell’opera in traduzione tedesca. La Breth è tornata invece alla versione francese. Con il regista italo-tedesco Sergio Morabito ha apportato tagli e altre modifiche ai lunghi dialoghi parlati, in origine scritti in versi alessandrini. A tutto vantaggio della musica, interpretata da un cast eccezionale di cantanti, dal coro preparatissimo della Staatsoper e dalla Staatskapelle diretta da Daniel Barenboim.
Nel ruolo di Dircé (Glauce), figlia del re Creonte e promessa sposa di Giasone, si è esibita Elsa Dreisig, giovane soprano franco-danese assai promettente, seppure un po’ stridula negli acuti. Formidabile Iain Paterson (Creonte), mentre Charles Castronovo (Giasone), tenore lirico molto apprezzato, impallidisce a confronto con la superlativa Yoncheva. Il soprano, la star incontestata della serata, esprime una vasta gamma di emozioni, dall’orgoglio ferito al amore incondizionato per i figli e alle smanie di vendetta.
Medea e la sua ancella, il bravissimo mezzosoprano Marina Prudenskaya, portano vestiti scuri. Dircé, che morirà avvelenata dalla rivale, indossa invece un abito chiaro. Sul palcoscenico il contrasto è accentuato da un sottile gioco di luci e di ombre. Alla fine Medea accoltella i due figli, in un gesto estremo per punire il marito infedele che li adora, prima di essere lei stessa divorata dalle fiamme che distruggono il palazzo di Creonte.
La messinscena ha lasciato un po’ perplessi, tra l’altro perché il Tosone d’oro custodito nel deposito della corte di Corinto fa pensare a una specie di bene storico trafugato, simile alle opere d’arte rubate ad esempio durante la dittatura nazista. Ebbene tutto ciò rimane uno spunto non ulteriormente approfondito. Alla fine la regista è stata accolta con alcuni buu, ma complessivamente è prevalso l’entusiasmo per la ottima esecuzione musicale.