A Torino un concerto in collaborazione tra l’orchestra Archi dell’associazione De Sono e la corale Stefano Tempia. Nella prima parte del programma la Messa in sol maggiore D 167
di Attilio Piovano foto Pasquale Juzzolino
NASCE DA UNA SIGNIFICATIVA COLLABORAZIONE il doppio concerto di lunedì 30 e martedì 31 marzo 2015, a Torino, in Conservatorio che ha visto uniti nel segno di Schubert il coro dell’Accademia Stefano Tempia (la più antica e blasonata associazione musicale torinese, essendo sorta nel 1875) e l’orchestra Archi, fiore all’occhiello della relativamente giovane De Sono: forte in realtà di oltre venticinque anni di attività, durante i quali ha sostenuto con borse di studio centinaia di giovani musicisti oggi in carriera, meritevole inoltre per le sue prestigiose iniziative in campo editoriale, specificamente musicologico e per la sua attività organizzativa in campo concertistico. Concerto strenuamente voluto dai direttori artistici delle due istituzioni, rispettivamente Guido Maria Guida e Francesca Camerana, convinti entrambi dell’opportunità di unire le risorse artistiche in una città come Torino dalle enormi potenzialità e con un pubblico ricettivo e attento alla qualità: entrambi in sintonia sulla necessità imprescindibile di ‘puntare’ sui giovani (il senso artistico della De Sono è proprio questo) dunque sulla formazione delle nuove generazioni, offrendo occasioni altamente qualificate, è il caso dell’orchestra Archi.
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Un evento inserito dunque nei cartelloni di entrambe le istituzioni e appartenente a un più ampio progetto Schubert che vede coinvolta anche un’altra associazione torinese, Antidogma Musica, fondata quasi quarant’anni or sono.
Due serate affollatissime, quella di martedì 31 apertasi con la spigliata introduzione di Andrea Malvano, brillante studioso e coordinatore editoriale della De Sono che ha ben evidenziato i tormenti biografici di Schubert. Ecco allora la Messa in sol maggiore D 167 per soli archi e continuo, frutto di uno Schubert appena diciottenne e già in grado di stupirci con alcuni significativi guizzi, pur rifacendosi alla tradizione viennese: e si sa che Schubert aveva frequentato la Cappella Reale cantando nel coro di voci bianche, dunque avvezzo alle maniere, per dire, di un Michael Haydn e di altri autori che in quella sede venivano correntemente eseguiti. Concisa e scorrevole, la Messa D 167 che Guido Guida ha diretto con partecipe determinazione e mano salda, potendo contare sul coro curato dall’esperto Dario Tabbia, s’impone subito con la dolce, assertiva pacatezza del Kyrie, appena increspata nel Christe dalla voce del soprano, la valida Nadia Kuprina già borsista De Sono. Poi l’impennata vitalistica del Gloria dalle sciolte frasi corali e dalle trascoloranti armonie, ammirevole per eleganza e stringatezza. E il coro della Tempia è parso davvero all’altezza per precisione, incisività ritmica e omogeneità. Significativo il Credo dall’iniziale gioco antifonico di voci chiare e voci scure, fondato su un passeggiato degli archi di notevole e suggestivo fascino che prosegue poi imperterrito.
Schubert non si preoccupa di illustrare ogni passaggio, non cede alle lusinghe di descrittivistici madrigalismi, preferendo scorrere rapidamente il testo (dal quale con giovanile vis polemica espunge la sezione «Et unam Sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam»), appena inserendo qualche impercettibile velatura su «Passus est». Anche il «Resurrexit» di questa gradevole Messa niente affatto liturgica giunge nel segno della continuità; prevale una luminosità costante, ma di colori caldi e soffusi, non sfolgoranti. Qualche concessione alle convenzioni nei ritmi incisivi ed aitanti ‘alla francese’ nell’esordio pomposo del vibrante Sanctus, che disvela poi una Fuga su «Osanna» di chiara e snella politezza e il coro della Tempia lo ha affrontato con notevole sicurezza. Ancor meno liturgico il Benedictus col suo ritmo ternario di danza, le sospirose frasi, la cangiante armonia. In apertura ecco il soprano, poi diviene un terzetto (bene l’equilibrio tra le voci soliste, la citata Kuprina, il tenore Filippo Pina Castiglioni e il basso Devis Longo), a prevalere un tono colloquiale e suasivo. In chiusura il pathos dell’Agnus, in assoluto il momento più toccante dell’intera Messa, col tono cinereo dell’attacco e l’insistente figurazione di lunga e breve. Assai apprezzata Nadia Kuprina, pur in presenza qua e là di qualche imprecisione di intonazione, per la bellezza dell’emissione e la varietà dei colori. Toccante la risposta corale su «Miserere», vero suggello di questa Messa giovanile, non già un capolavoro, bensì un fondaco di ingegnose soluzioni armoniche, ampiamente approfondite da Schubert negli anni a venire.
Poi il sublime maturo Quartetto D 810 “La morte e la fanciulla” dagli assunti programmatici squisitamente romantici, nell’elaborazione orchestrale di Gustav Mahler. E qui l’orchestra Archi, che aveva assai diligentemente sostenuto le voci nella Messa, lasciando giustamente a primeggiare coro e solisti, ora suonando sotto la sola guida di Alessandro Moccia, Konzertmeister di caratura internazionale, suo primo violino e maestro concertatore, ha sfoderato un suono di immane e corposa rotondità, pur contando su un organico relativamente ridotto, lanciandosi a briglie sciolte già in apertura con quelle fiammeggianti frasi all’unisono poi intercalate di esacerbate dissonanze. Ma La morte e la fanciulla (che nell’arrangiamento di Mahler, datato 1894, si ammanta di un vigore sinfonico davvero inaudito) è anche momenti di radura e distensione, già nell’Allegro iniziale, con passi di cantabilità quasi operistica che l’orchestra Archi della De Sono, dalla pasta coesa e calda, hanno ben reso. E c’è tutto Schubert nella fantomatica, spettrale chiusa dell’Allegro, i suoi empiti e le sue angosce, il suo candore e i suoi tormenti. E allora quante emozioni nell’insistito ritmo dattilico dell’Andante dalle superbe variazioni sul tema del Lied omonimo che raramente accade di ascoltare in maniera sì variegata e nitida, ogni variazione un colore, una messa a fuoco espressiva, giù giù entro l’inesorabile progress delle variazioni stesse, protese verso il climax. Nel breve Scherzo (poi replicato a mo’ di bis a fine serata dopo protratti applausi) aleggia un che di demoniaco che contrasta in maniera lampante con il soave, quasi celestiale Trio. Infine quell’indimenticabile e macabra tarantella di morte di cui si sostanzia il movimento conclusivo, interpretato dai giovani dell’orchestra Archi con una carica energetica che ha davvero del prodigioso.
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