Purezza vocale: la solista al Rossini Opera Festival nell’Auditorium Pedrotti forse mai visto così colmo
di Ilaria Badino
NE È PASSATA DI ACQUA SOTTO I PONTI DA QUANDO, con il suo primo Concerto di Belcanto nell’agosto 2009, Olga Peretyatko ha dato inizio alla propria carriera concertistica internazionale, a cui s’affacciava ancora un poco intimidita durante un afosissimo pomeriggio pesarese. Ora, la già graziosa fanciulla di San Pietroburgo è ormai sbocciata in tutta la sua prepotente ma al contempo delicata bellezza e mostra di saper fare gli onori di casa con estrema disinvoltura, interloquendo di tanto in tanto con il pubblico – che gremisce un Auditorium Pedrotti forse mai visto così colmo – alla moda americana delle dive-intrattenitrici come la DiDonato e la Fleming.
[restrict paid=true]
Il primo intervento corrisponde all’introduzione del recital, ed in particolare del brano in apertura di programma: la cavatina della protagonista da Ruslan e Ludmilla. Alla Peretyatko preme sottolineare quanto misconosciuta ne sia ai più la scrittura quasi rossiniana e, del resto, non nuoce in merito ricordare come Michail Glinka, partito nel 1830 alla volta dell’Italia insieme al compatriota Nicolaj Ivanov – tenore che non a caso sarebbe poi diventato allievo di Nozzari e protégé del Cigno di Pesaro – abbia innervato il proprio teatro musicale, oltreché di lirismo folkloristico, giustappunto d’influenze schiettamente belcantistiche. Si procede con arie e romanze da camera di Rimsky-Korsakov, dal sapore talvolta baldanzoso (l’aria di Snegurochka dalla Fanciulla delle nevi «S podruzhkami po jagody chodit»), talaltra arcano, sinuoso e nostalgico (la romanza orientale «Plenivshis’ rozoy, solovej»). Come del resto già nei panni di quella Marfa nella Sposa per lo zar portata in scena alla Scala nel marzo 2014 sotto la bacchetta di Daniel Barenboim, in questo gustoso assaggio del repertorio patrio il soprano dà prova di possedere, oltre ad un’innata venatura malinconica del timbro, tipicamente russa, un registro mediano pieno e risonante che di esso la rende un’interprete ideale per natura, mezzi ed intenzioni.
Breve pausa di cinque minuti per il cambio d’abito e si ricomincia con Rachmaninov. Valgono anche qui le considerazioni appena espresse, e si prenda come pietra del paragone il celebre Vocalise nel quale una miriade di cantanti si sono cimentate. Alla Peretyatko non solo non mancano una purezza del suono alla Natalie Dessay dei verd’anni o un’eleganza sublime alla Dame Kiri Te Kanawa; a queste caratteristiche ella ne aggiunge una forse ancor più imprescindibile ma che soltanto chi è nato nella gran madre Russia possiede: quella struggente screziatura melanconica che invera il brano, che ne realizza in tutto e per tutto le sue possibilità espressive.
Chiude il programma ufficiale quella che sembrerebbe essere una breve appendice rossiniana: un’«All’ombra amena del Giglio d’or» con fresche variazioni approntate la notte prima, afferma orgogliosamente il soprano, eseguita con quel nitore e quella levigatezza vocali che nel 2006 l’avevano portata all’attenzione di coloro che, tra pubblico e addetti ai lavori, dalla sua Corinna nel Viaggio a Reims messo in scena dall’Accademia Rossiniana ne avevano intuito le potenzialità, ed un «Bel raggio lusinghier», chissà, magari foriero di una futura presa del mastodontico ruolo di Semiramide. Seguono poi bis a ruota come stelle filanti: «Una voce poco fa» in versione sopranile piccantissima e finalmente diversa, la cavatina di Fiorilla dal Turco in Italia – quella che dovrebbe essere (il condizionale, quando si parla di programmazioni di anno in anno a Pesaro, è d’obbligo) un’anticipazione dell’interpretazione della parte integrale in occasione del ROF 2016 –, «Villanelle» di Eva Dell’Acqua e «Solovej» di Alabiev (bis, questi ultimi due, tipicamente gruberoviani, sebbene la “Santa di Bratislava” esegua la versione tedesca del secondo pezzo, ossia «Die Nachtigall»). L’entusiasmo è tale che il quinto e, questa volta per davvero, ultimo encore dev’essere improvvisato: la Peretyatko cerca lo spartito di «Je veux vivre» dal Roméo et Juliette di Gonoud sul proprio tablet e lo porge al pianista Giulio Zappa… Assistiamo così ad uno strambo incontro tra arte di tradizione e moderna tecnologia, il tutto incorniciato da un’atmosfera stupita e sorridente. Colorature, picchettati, trilli, legati sono risolti in maniera ineccepibile durante l’intero arco di questo recital che spazia dalle esotiche, fascinose sonorità russe a quelle più familiari del genius loci, ed è con una schiera di fan entusiasti che omaggiano la loro musa recandole mazzi di fiori sul proscenio che la festa giunge alla sua conclusione.
Certo è che, come la stessa Peretyatko vuole porre in evidenza, tutto è più facile con un pianista della levatura di Giulio Zappa, il quale non solo respira con la cantante e ne prevede le mosse fungendo da perfetto accompagnatore, ma dispone anche di una tavolozza tanto sterminata di colori che è un vero piacere starlo ad ascoltare, trascinati a scostare furtivamente l’orecchio dalla voce regina talmente è elevata la qualità della sua esecuzione. L’approccio è da un lato giustamente intimistico nel repertorio da camera, caratterizzato da un tocco lieve ma sempre eloquente; dall’altro, nei brani operistici sa farsi più ardito, dal suono più polposamente ricco e multiforme, andando a sostituire un intero ensemble strumentale quasi non facendone sentire la mancanza. Si comprende dunque il motivo per il quale talvolta alcuni pur dotatissimi cantanti rendano meglio in un recital che non in presenza di un’orchestra sinfonica con tanto di direttore: mai dimenticarsi che, per raggiungere un risultato eccellente, fondamentali sono il rispetto reciproco e l’empatia (ogni riferimento è puramente casuale).
[/restrict]