Una Butterfly e una Aida molto ‘speciali’: per il Festival Incanti edizione 2017, a Torino
di Attilio Piovano foto © Controluce
Figùrati la musica! Così l’accattivante e azzeccato slogan volto a designare l’edizione 2017 del Festival Incanti: che a Torino si è svolto – in varie location – ma principalmente presso il Teatro Giovani di corso Galileo Ferraris tra il 3 e il 9 ottobre e che il prossimo anno festeggerà il quarto di secolo. Un consolidato e apprezzato Festival – per la direzione artistica dell’esperto e poliedrico Alberto Jona – da sempre dedicato al teatro di figura, con compagnie provenienti da tutto il mondo, incentrato quest’anno per intero sui rapporti tra Musica e Teatro di Figura, per l’appunto. E allora ecco che la serata inaugurale (7 ottobre) ha visto protagonista lo spettacolo dal titolo Butterfly Blues a cura di Controluce Teatro d’ombre: progetto, messinscena e regìa di Cora De Maria, Alberto Jona e Jenaro Melendres Chas. Uno spettacolo intenso e poetico, nel contempo cupo e, per certi versi, a suo modo crudamente realistico, inquietante, ma altresì – ci si passi l’ossimoro – lieve, delicato, sfuggente, enigmatico e visionario grazie all’allusivo e partecipe testo di Rosa Mogliasso (Eliana Cantone impeccabile voce recitante, impassibile come un corifeo da tragedia greca e, proprio per questo, in grado di toccare le corde più riposte del nostro intimo sentire).
Una riflessione sui grandi temi della vita grazie ad un abile puzzle di frammenti pucciniani (a cura di Andrea Chenna) che «frantumandosi, ricostruiscono, come in un mosaico della memoria, la tragedia di Butterfly – così nelle dichiarazioni programmatiche degli autori – in un continuo susseguirsi di superfici che accolgono il mondo effimero, atemporale ed evanescente delle ombre». Uno spettacolo che prende le mosse da un Puccini agonizzante nel suo letto d’ospedale a Bruxelles, colto negli ultimi istanti di vita, tragicamente consapevole della fine imminente – a trafiggerlo in gola una teoria di aghi radioattivi all’iridio, come farfalla infilzata con crudeltà da spilloni su una tavola in legno – e pone poi interrogativi, come protendendosi sull’abisso. Una donna lo accudisce e gli bagna con tenerezza le labbra di champagne. Sensualità, eros e spiritualità si intrecciano, grazie alle coreografie, semplici e pur efficacemente funzionali, di Antonella Usai (magnifica e diafana danzatrice) e di Marco Intraia (costumi di Sita Singh e luci di Simona Gallo. Lanterne cinesi, un paravento e semplici giochi di luce, pochi oggetti reali e molte evocative sagome (la nave di Pinkerton…) colori alternati, il rosso del sangue e della passione, ma anche il nero e il bianco, come nel teatro del Nõ; vaghe allusioni alle mitiche coreografie di Loïe Fuller, un velo di esotismo e altro ancora, in un sapiente dosaggio di musica e immagini volti ad evocare una storia di seduzione, abbandono, attesa, ansia, mistero, inganno e suicidio. Se ne esce toccati e inquieti, costretti ad interrogarci a nostra volta sui misteri dell’essere. Che solo l’arte e massime la musica può aiutarci se non a comprendere almeno ad intuire.
Di tutt’altro segno l’Aida (produzione compagnia Il Dottor Bostik) rivisitata con graffiante ironia e mordente humour–Aida è servita – da Alfonso Cipolla, drammaturgo e critico teatrale oltre che direttore dell’Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare (tra i massimi studiosi europei del teatro di marionette). Un’Aida abilmente ‘concentrata’ in un’ora o poco più: e già questo è merito indicibile, il più grande kolossal melodrammatico dove si mettono in gioco scontri epocali tra due popoli contrapposti e si intrecciano amori e rivalità, reso con la lievità di una commedia di Feydeau, quasi teatro da camera, e senza una sola parola. Un elegante tavolo di ristorante, dietro al quale Dino Arru, avventore smagato e distratto (un Buster Keaton dalla maschera impassibile, solo con baffi e qualche chilo in più) officia una sorta di rito, muovendo i suoi buffi pupazzi culinari, fatti di cucchiai e mestoli, teiere e bollitori, policrome vivande, bottiglie, caraffe, stoviglie e quant’altro in una ridda di risibili e comiche trouvailles; frattanto il serioso Raffaele Arru cameriere in guanti bianchi e giacca color crema, è intento ad entrare e uscire di scena con sempre nuove portate su carrello. E non mancano nemmeno gli elefanti (in realtà buffi residui di aspirapolvere, montati ad arte) con tanto di barriti inverecondi.
Veri protagonisti i poliedrici e multi-tasking Laura Scotti (soprano) e Oliviero Pari (basso), anche in veste di strumentisti, oltre che amabili attori. Si sono divisi equamente le ‘parti’ affrontando i più celebri passi della partitura verdiana (da Celeste Aida a Ritorna vincitor), impersonando rispettivamente l’una Aida, Amneris e financo il messaggero, Radamès, Ramfis, il re d’Egitto ed Amonasro l’altro, ovviamente piegando la propria voce ai dissimili registri richiesti e, con effetti di esilarante spasso, addirittura proponendo l’immancabile Marcia trionfale, con clarinetto (Laura Scotti) e trombone (Oliviero Pari): irresistibile.
Ad accompagnarli al pianoforte assecondandoli con professionale acribia e docile flessuosità, il navigato Gabriele Manzella. In chiusura il coup de théâtre: non già la tragedia che ognuno si aspetta, in primis i connoisseurs di lungo corso, dunque la tomba che inesorabile si richiude su Aida e Radamès, bensì un irenistico “e vissero felici e contenti”, con tanto di Marcia Nuziale: non una a caso, ovviamente, bensì quella del ‘rivale’ Richard, il ‘matto di Lipsia’, tratta ç a va sans dire dal Lohengrin, dalle ‘parallele’ vicende di amore e morte in un gioco intellettuale di chiasmo davvero efficace.
Spettacolo colto e godibilissimo, in grado di strizzare l’occhio al melomane più incallito, inducendo il sorriso e giocando sulla sua complicità, ma al tempo stesso – come per incanto – capace di sedurre paradossalmente anche lo spettatore ignaro di melodramma e financo i più piccoli: non a caso la sera del 7 ottobre alcuni pargoli erano presenti e ridevano di gusto senza sapere nulla di Verdi & C.