di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
Apertura di stagione, al Teatro Regio di Torino, la sera del 10 ottobre 2017, nel segno di Wagner. E si è trattato del Tristano e Isotta, opera – si sa – di epocale rilievo per l’evoluzione del linguaggio musicale, il poema della notte e dell’estasi, il trionfo del binomio iper-romantico di eros e thanatos, nel fastoso allestimento dell’Opernhaus Zürich. Sul podio Gianandrea Noseda che del Tristano ha dato una lettura davvero magnifica, accolto a fine serata da convinti e calorosi applausi. Che sarebbe stato un successo lo si è compreso, in realtà, fin dal celeberrimo Preludio – introdotto dal famigerato accordo foriero di ‘aperture’ verso la musica del ‘900 ed il dissolvimento della tonalità – centellinato con una cura indicibile, con sopraffina attenzione alla curva espressiva e una rara capacità di introspezione: dunque il climax nella parte centrale, a designare l’estasi amorosa. Così pure Noseda ha ben delineato l’intero ‘arco’ della partitura; e allora il second’atto affrontato con palpitante scioltezza, racchiuso entro i due più pacati, il terzo dunque nuovamente punteggiato di toccanti indugi: una speciale attenzione a privilegiare l’elemento lirico, la cura estrema nel lumeggiare i dettagli della strumentazione e la capacità di creare indicibili momenti di magica e irreale sospensione. Ottima la prova fornita dall’orchestra sicché Torino si è confermata città wagneriana (pochi ricordano, forse, che assieme a Bologna fu la prima a fine ’800 ad accogliere con entusiasmo il verbo wagneriano: il Tristano in particolare giunse sulle sponde del Po già il 14 febbraio del 1897, per la direzione di un Toscanini trentenne). Bene anche il coro, come sempre ottimamente istruito da Claudio Fenoglio.
Sul versante delle voci è da registrare innanzitutto il successo personale di Ricarda Merbeth nel ruolo di Isotta, un’Isotta convincente e partecipe sotto tutti i punti di vista, anche attoriale, dalla vocalità impeccabile e partecipe. Ha avuto momenti di indicibile intensità raccogliendo non a caso a fine serata vivi consensi da parte del pubblico: che, in realtà, è andato purtroppo diradandosi vistosamente, la sera della prima, a fine recita, iniziata alle 19, ma terminata bensì a notte fonda dati i tempi dilatati dei due lunghi intervalli (dovuti a ragioni tecniche per i cambi scena). Bene anche Peter Seiffert nei panni di Tristano, parte impervia che il tenore dal timbro icastico e significativo e dalla voce stentorea ha affrontato con sicurezza e generosità, senza risparmiarsi (tant’è che la sera della prima, verso la fine dell’opera, mostrava qualche piccolo segno di affaticamento se non di cedimento: minimo neo, peraltro scomparso poi nelle repliche succedutesi fino al 22 ottobre, sempre con vivo successo). Nel cast da segnalare un autorevole re Marke, per nobiltà e credibilità, ben reso dalla voce icastica e possente di Steven Humes, il generoso Kurwenal di Martin Gantner, la damigella Brangäne cui l’ottima Michelle Breedt ha conferito accenti di commovente humanitas e il Melot di Jan Vacík: un cast ben affiato e coeso, guidato dalla mano esperta di Noseda.
Una teoria di stanze, dall’elegante efficacia e l’innegabile resa scenica, realizzate grazie a una piattaforma girevole
Ed ora la regìa di Claus Guth che ha inteso ambientare Tristano ai tempi di Wagner stesso, con ampi riferimenti biografici e dunque la vicenda di Mathilde Wesendonck che, si sa, fu musa ispiratrice, all’origine della gestazione del Tristano stesso. E dunque non già un vascello, bensì l’elegante appartamento della Wesendonck, consorte del facoltoso commerciante Otto (scene fastose, ma nel contempo ‘pulite’ e lineari di Christian Schmidt, che firma anche i coerenti costumi, ottime le luci di Jürgen Hoffmann); una teoria di stanze, dall’elegante efficacia e l’innegabile resa scenica, realizzate grazie a una piattaforma girevole a visualizzare di volta in volta gli ambienti, ora cupi, ora luminosi. Conseguentemente i personaggi appaiono esponenti di una borghesia ottocentesca, con le sue contraddizioni e lacerazioni. Insomma l’amore di Tristano e Isotta trasposto in un dissimile contesto, e allora Tristano con tanto di occhialini, panciotto e abito scuro che pare più un banchiere pentito, Isotta e la Brangäne che (curiosamente) hanno abiti praticamente speculari, ma soprattutto – vistosa – la mancanza del mare: significativa (e pur intenzionale) assenza che ha finito per ripercuotersi a nostro avviso negativamente sull’intera lettura di un’opera innegabilmente ambientata en plein air, dove il ‘respiro’ del mare è elemento fondamentale, verrebbe da dire immanente alla musica stessa.
Una lettura certo coerente e forse anche condivisibile, con un’idea precisa; pur tuttavia laddove i marinai alludono alle vele, occorrerebbe accennare al ponte del vascello, ed ecco che si vede invece l’appartamento di Isotta, dominato da un grande letto, con comodini ed abat-jour e lei che si affaccia anziché sul mare su un giardino d’inverno con eleganti kenzie: e il tutto finisce per generare legittime perplessità, se non addirittura ironici sorrisi. In luogo della torcia eleganti appliques che si accendono e si spengono; appena una vaga allusione alla brezza notturna grazie ad alcune proiezioni (che pur tuttavia – paradossalmente – finiscono per risultare estranee al resto). Certo, una lettura a suo modo allusiva anche alla psicanalisi, e dunque un ambiente borghese, appunto, e ‘chiuso’, spesso claustrofobico. Anche nel terz’atto mancava del tutto il mare; Kurwenal e Tristano anziché nel castello in Bretagna paiono due miserevoli vagabondi attaccati alla bottiglia dinanzi ad un facciata sbrecciata (forse allusiva alle certezze interiori che si sgretolano).
Interni ed esterni si alternano, con suggestivi effetti anche se in modo un po’ casuale, a nostro avviso, finendo per snaturare il dramma di Tristano e Isotta. Per dire, il second’atto si apre in un ambiente che pare la scena del ballo in Traviata con dame eleganti e gentiluomini in frac e cilindro, una teoria di bicchieri pronti per brindare; e più avanti un enorme tavolo, sovrastato da candelieri in argento con immacolata tovaglia di Fiandra al quale siedono, con impassibile e asettica posa statuaria, personaggi maschili come in un consiglio di amministrazione. Lo stesso tavolo sul quale, chissà mai perché, culmina l’estasi di Tristano e Isotta (e dire che il letto era là disponibile e pronto all’uso…). Anche la scena della morte risulta se non proprio risibile, certo priva di tensione. Successo complessivo davvero notevole quanto al versante musicale, della direzione, perplessità circa la regia, manifestate peraltro in maniera molto soft e con sabauda, educatissima circospezione.
Ormai è una scelta assodata: la nave, nel Tristan und Isolde, è un orpello di cui liberarsi rapidamente. In fondo l’edizione 2004 del teatro di Monaco, dove Isolde e Brangäne venivano rappresentate come due croceriste con tanto di occhiali da sole alla Lolita di Sue Lyon potrebbe oggi essere considerata quasi classica. E che dire dell’edizione 2015 di Bayreuth tutta fatta di scale e saliscendi? Etc. Etc. Qui la nave è l’interno di una ricca dimora borghese con camera da letto, salotto con piante, veranda etc. Il regista cade nell’ “übertrieben” forzando sempre più la mano fino ad arrivare a un ultimo atto nel quale la corte di Marken siede a una tavola imbandita con un arredo che ricorda alcune scene di “Odissea nello spazio” di Kubrick. Che noia queste regie “creative”!!