La donna del lago. L’opera in breve

a cura di Emilio Sala (dal libretto del Teatro alla Scala)

 È giustamente celebre il passo di una lettera di Giacomo Leopardi al fratello Carlo, spedita da Roma a Recanati nel 1823. Siamo durante il periodo di carnevale. Nel «natio borgo selvaggio» sono in corso alcune rappresentazioni della Cenerentola di Rossini che impressionano il conte Carlo Leopardi fino alle lacrime.

Dalla città papale gli risponde il fratello:

Mi congratulo con te dell’impressioni e delle lagrime che t’ha causato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi non tocchi niente di simile. Abbiamo in Argentina [al Teatro Argentina] la Donna del lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere anch’io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso

 

L’opera che fece (quasi) piangere il più grande poeta del romanticismo italiano era andata in scena per la prima volta a Napoli nel 1819 proponendo un soggetto a più di un titolo sorprendente. Col librettista Andrea Leone Tottola, Rossini aveva infatti messo in musica il poema The Lady of the Lake che Walter Scott aveva pubblicato nel 1810 e che non era ancora stato tradotto in italiano (nel 1813 era però uscita una traduzione francese). In tale opera Scott anticipa molti degli elementi che faranno parte dei suoi famosi romanzi storici come la cura dell’ambientazione e l’individuazione della couleur locale, una pratica fondamentale per la definizione dell’estetica romantica, non solo letteraria ma anche musicale. La storia si svolge nella Scozia che i cosiddetti Poems of Ossian avevano reso celebre in tutta Europa. La tradizione ossianica (in Italia filtrata dalle traduzioni di Melchiorre Cesarotti) costituisce la fervida humus di cui si nutrono tanto il poema di Scott quanto l’opera di Rossini. Non a caso Stendhal scrisse nella sua celebre Vita di Rossini che La donna del lago «è un’opera epica più che drammatica». Il punto apicale di questo afflato epico è costituito dall’inno dei bardi («Già un raggio forier») inserito nel Finale I, dopo il concertato (nel cosiddetto “tempo di mezzo”), e accompagnato dall’ossianica arpa, viole, pizzicato dei violoncelli e un unico contrabbasso.

Se si prendono tutti i grandi finali interni delle opere italiane di Rossini dal Tancredi (1813) alla Semiramide (1822), ci si accorge che essi adottano solo due impianti tonali: o in Re maggiore (come appunto Tancredi, ma anche Cenerentola, ecc.), o in Do maggiore (Semiramide, ma anche Barbiere, ecc.). L’unico finale in una tonalità diversa (Mi bem. maggiore) è proprio quello della Donna del lago. È questo un fatto da mettersi in relazione col significato drammatico che tale tonalità acquisirebbe nella partitura di Rossini? D’altra parte il carattere eccezionale di quest’opera non si limita al piano tonale del Finale I. Basti pensare al potenziamento drammaturgico della “banda sul palco”, che non svolge solo una funzione “paesaggistica” (contribuendo alla creazione del “colore ossianico”), ma diventa un vero e proprio mezzo architettonico e strutturale per riconcepire musicalmente l’actio scenica. Significativa, a questo proposito, la fanfara dei cacciatori costituita da sei corni sul palcoscenico (ripartiti in tre gruppi) che già all’inizio dell’opera riorganizzano lo spazio rappresentativo ed evocano lontananze misteriose, forse minacciose (come i rulli di tamburo militare che aprono la sinfonia della Gazza ladra). Questo sul versante della spazializzazione. Ma anche sul versante temporale, della memoria interna, Rossini si rivela un drammaturgo dirompente. Al processo di potenziamento della “musica in scena” va ascritto infatti anche l’uso di un motivo ricorrente di carattere popolare, una canzone su ritmo di barcarola intonata per la prima volta da Elena (la “donna del lago”): «Oh mattutini albori». Questo motivo, che ritornerà più volte – a mo’ di fil rouge – nel corso dell’opera, diventa alla fine della rappresentazione una vera e propria dramatis persona, capace di innescare lo scioglimento e il riconoscimento tra Elena e il re di Scozia. Si tratta di un procedimento, questo della canzone di scena che diventa un motivo ricorrente, lanciato nella drammaturgia musicale europea da un’opera che andrebbe meglio conosciuta: il Richard Coeur de Lion di Grétry (1784). Il legame tra presenza sonora e meccanismo agnitivo è ulteriormente consolidato dal fatto che la melodia («Qual dolce suon», dice Elena) ci giunge ancora una volta da dietro le quinte, da uno spazio invisibile e misterioso. La voce che l’intona è quella di colui che Elena ancora ignora essere il re. La canzone-barcarola, in apparenza così semplice e suggestiva, si incarica di esprimere la natura di una relazione – quella tra Elena e Uberto / Giacomo re di Scozia – che è in realtà ben più complessa e profonda di quella tra Elena e Malcom, il suo futuro sposo.

Commenti 1

  1. Molto interessante e pregnante

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