di Marco Testa

armideOccuparsi dell’Armide lulliana, opera che sancì una volta di più il sodalizio tra Jean-Baptiste Lully e Philippe Quinault (autore, a detta di alcuni, del più bel libretto d’opera in lingua francese – quello appunto dell’Armide), evoca in noi le atmosfere dell’invero non così celebre film Le roi danse, in cui il regista belga Gérard Corbiau volle ripercorrere le vicende che interessarono il compositore d’origine fiorentina lungo il Grand Siècle francese, nonché il suo rapporto con Luigi XIV dall’idillio iniziale alle incomprensioni degli ultimi tempi, sino alla morte avvenuta in modo quasi bizzarro, a seguito cioè di una ferita al piede che Lully stesso si era procurato con la punta del proprio bastone mentre dirigeva un Te Deum, al principio del 1687. Circa un anno prima (15 febbraio 1686) presso l’Académie Royal de Musique di Parigi Armide veniva appresentata per la prima volta; ultima opera di Lully, contemporaneamente fu la prima opera francese a essere rappresentata in Italia, a Roma. Il barocco francese incontra la Città Eterna: curioso destino, giacché sarà proprio vituperando la Roma berniniana e borrominiana che l’enciclopedista francese Charles de Brosses più tardi parlerà, appunto con spregio, di una “Roma barocca”, richiamandosi a quel termine portoghese indicativo delle perle maltagliate, goffamente tortuose, dalla forma irregolare.

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Certo, l’uomo barocco non sapeva di essere tale, né Lully poteva prevedere che avrebbe diviso la Francia in un’accesa disputa (nota come Querelle des Bouffons) che ben presto avrebbe contrapposto filoitaliani e filofrancesi, ossia quanti consideravano il francese lingua assolutamente inadatta a essere accostata alla musica (e tra questi troviamo Rousseau, Diderot e il barone d’Holbach, alla cui coterîe non si discorreva di solo ateismo, di cui era l’indiscusso campione) e tra coloro che invece difendevano e anzi ostentavano la musicalità del francese, Rameau su tutti, che proprio con l’autore della Nouvelle Heloïse e del Discours sur l’origine de l’inégalité ebbe uno scontro destinato a diventare celebre. A prescindere da quello che sarebbe stato il destino del francese nella storia del teatro musicale, una cosa era certa: questa lingua andava diffondendosi sempre più presso i salotti e le corti d’Europa emergendo come la nuova lingua delle relazioni internazionali, conseguenza della prepotente ascesa politica e culturale della Francia di Mazzarino e Luigi XIV: da Napoli a Stoccolma, da San Pietroburgo a Torino, i vari dispacci diplomatici e più in generale le comunicazioni tra i vari governi durante tutto il secolo successivo avverranno in francese.

Dodicesima opera del binomio Lully-Quinault nel genere della tragédie lyrique (su tredici tragédies lyriques lulliane solo il Bellérophon deroga a tale regola), il libretto di Armide si basa, com’è noto, sulla Gerusalemme liberata del Tasso. Ora, inserito nella collana “Canone teatrale europeo”, presso le Edizioni Ets è stato pubblicato un corposo studio critico che riguarda proprio l’opera in questione: che l’Armide sia potuta assurgere al rango di canone è fatto inoppugnabile, avendo fornito la struttura alla stessa tragédie lyrique, esito tipicamente francese che ci racconta il bisogno della cultura transalpina di costruire una propria tradizione operistica nell’epoca d’oro del teatro francese di prosa, ossia al tempo in cui contemporaneamente erano attivi uomini come Corneille, Molière e Racine. Esito tipicamente francese, si diceva, ma prodotto del fiorentino Lulli (rifinito dal francesizzato Lully), per cui il teatro nazionale francese deve perciò non poco all’Italia: come scrisse Massimo Mila, «Lulli, intrigante, gaudente e spregiudicato […] intuì perfettamente cosa volevano i francesi e […] ritirò l’opera alle sue origini, cioè al recitar cantando dei fiorentini, opportunamente modificato secondo le esigenze della lingua e del verso francesi». Intrigante, gaudente e spregiudicato al tal punto da riuscire a ottenere quel «privilège» che nei fatti si tradusse in una sorta di «dittatura musicale» presso la corte del re Sole.

Come si può leggere nel saggio introduttivo di Filippo Annunziata (esempio di personalità poliedrica che si occupa professionalmente di musica e nel frattempo insegna diritto commerciale alla Bocconi) l’Armide lulliana è «rappresentativa di un intero genere del teatro musicale europeo, che viene via via definendosi a partire dalla fine del Seicento; [inoltre] in Armide si riflette, in una forma compiuta, un’intera tradizione letteraria e culturale rappresentata dal romanzo e dall’epica cavalleresca». Di tutto questo e di molto altro ancora si è occupato Annunziata, il cui testé citato saggio, denso e appassionato, è stato costruito intorno a un libretto qui riportato in lingua originale ma accompagnato opportunamente da una traduzione in italiano; la narrazione dell’autore è alimentata da immancabili riferimenti alla tradizione operistica italiana e germanica oltre a quella francese, elementi ineludibili per ripercorrere genesi e sviluppo della tragédie lyrique, il cui modello plasmato secondo gli schemi lulliani irradia con la propria luce tutta la tradizione transalpina non solo sino a tutto il secolo successivo (giacché Charles Burney un secolo più tardi poteva affermare che «ben pochi mutamenti sono intervenuti nell’opera dai tempi di Lulli, cioè da cent’anni a questa parte»), ma addirittura sino all’Ottocento inoltrato.

Ma chi è Armida? Personaggio mai tramontato, se forse mai necessitò di un qualche “rilancio” è certo che Lully e Quinault ebbero però il merito di darle nuova linfa. Su fascino di questa maga musulmana intrigante e spregiudicata non ci sono dubbi, come s’incarica di mostrare, tra l’altro, la quantità di scritti e di opere che da lei hanno tratto ispirazione: per limitarci al solo teatro musicale, si ricorderanno qui l’Armida di Monteverdi (purtroppo andata perduta), ma anche le omonime opere di Jommelli, Gluck, Rossini Traetta, Vivaldi, o ancora il Rinaldo di Händel, per non citare che alcuni tra gli esempi più celebri. Ad ogni modo se il lettore vorrà approfondire tale aspetto non avrà che da consultare il corposo apparato finale che Filippo Annunziata, «senza pretesa di completezza», ha organizzato in fondo al testo come una sorta di appendice, da Gl’Amori d’Armida di Giovanni Vilifranchi da Volterra (favola scenica del 1600) all’apporto cinematografico di Jean-Luc Godard (1987). Senza pretesa di completezza, nondimeno fornendo così un riferimento utile e appropriato.

Come nel cimento lulliano-quinaultiano, tutti coloro che si occuparono di Armida tentarono di ripercorrerne le peripezie psicologiche (seppur con accenti differenti). Nel quadro del rapporto tra Armida e Renaud (Rinaldo) viene indagato un tema ben radicato nella cultura europea, vale a dire il conflitto tra dovere e amore: così il dovere di Rinaldo, cavaliere giunto in Terra Santa per la Crociata, viene messo in discussione dal sentimento che prova per Armida, appartente però alla schiera nemica. Filippo Annunziata ha perciò sottolineato il conflitto particolarmente problematico che discende dall’infatuazione di Rinaldo per Armida: «in quanto nemico di Armide, Renaud dovrebbe – evidentemente – tentare di distruggerla; in quanto uomo, ne resta soggiogato»; ma ciò accade perché Rinaldo è vittima di un incantesimo da parte di Armida, per cui il suo desiderio è in qualche modo “artificiale” e per questo forse ancor più problematico: esso cela il desiderio di Armida di essere amata in modo sincero da Rinaldo, per cui il rapporto tra dovere e amore si ripropone per la maga in modo non meno spinoso.

Armida e Rinaldo hanno insomma assunto un valore iconico in un contesto che va ben oltre la tragédie lyrique, soprattutto in quanto il problema dato dal rapporto tra dovere e amore riguarda il vissuto umano da secoli. Pochi meglio di loro sono riusciti a incarnarne i risvolti.

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Marco Testa

Marco Testa

Cresciuto nell'isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino e docente dell'Accademia Corale "Stefano Tempia" (guida all'ascolto/storia della musica), attualmente è docente di storia della musica presso IMUSE Torino e collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli pubblicati in riviste specializzate, lavora principalmente per l'Archivio di Stato di Torino e scrive su "Musica - rivista di cultura musicale e discografica" e su "Il Corriere Musicale".

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