di Attilio Piovano
Molto opportunamente, il Teatro Regio di Torino ha deciso di riprendere, entro la presente stagione 2021-22, l’allestimento della pucciniana Turandot espressamente ideato, nel 2018, dal proteiforme Stefano Poda: artista a tutto campo dall’inconfondibile ‘segno’ grafico (memorabili la sua luminescente Thaïs del 2008 e così pure il suo fascinoso Faust del 2014), che firma regìa, scene, costumi, coreografia e luci, a tutto vantaggio di un’idea davvero unitaria dell’ultimo titolo posto in atto dal musicista lucchese.
Allestimento che all’epoca destò ammirazione e che nuovamente, la sera della prima, venerdì 22 aprile 2022, ha suscitato vasti consensi, raccogliendo convinti applausi da parte di un folto pubblico, e fa piacere rilevarlo (sette le recite, destinate a protrarsi sino al prossimo 5 maggio).
E dunque merita ribadire – sulla sorta di quanto già si ebbe a scrivere le 2018 – la visione registico-scenografica di Poda che molto punta sul bianco abbacinante e sul nero
Ancora una volta, è senz’altro dal finale che occorre prendere le mosse per una valutazione complessiva dello spettacolo affidato ora alla direzione di Jordi Bernàcer che ha potuto contare su un’orchestra in gran forma. Il finale, si sa, è la parte per così dire più ‘problematica’ del capolavoro incompiuto, non a caso la parte sulla quale decine e decine di esegeti si sono arrovellati, nel corso di ormai quasi un secolo, quella in cui lo stesso Puccini di fatto pare non credesse fino in fondo; tant’è che lasciò per l’appunto incompiuta l’opera tratta da una (diciamolo) bislacca fiaba di Carlo Gozzi, su non eccelso libretto dell’accoppiata Giuseppe Adami e Renato Simoni (nella quale il lucchese si era illuso di far rivivere l’inossidabile duo Illica e Giacosa), con una trama invero lontanissima dal suo sentire e dai consolidati stilemi della sua drammaturgia; ciò avvenne non tanto e non solo per la grave malattia – un papilloma maligno alla epiglottide linguale che lo condusse alla tomba anzitempo nel 1924, in una clinica di Bruxelles, dove invano e disperatamente tentarono di salvarlo grazie a cure all’epoca avveniristiche con aghi di radio – quanto per l’obiettiva difficoltà di dare un ‘senso’ drammaturgico allo ‘sgelamento’ dell’algida ed efferata principessa Turandot: dopo il trionfante scioglimento degli enigmi da parte del prode e temerario Calaf. Puccini – è evidente a chiunque – parteggiava per la piccola, dolce Liù, la ‘vera’ protagonista dell’opera, ad onta del tirtolo (che a detta di alcuni sublimerebbe sulle scene la triste e scabrosa vicenda biografica della suicida Doria Manfredi): ovvero l’estrema, accorata e disperante evoluzione negli anni dell’innegabile ‘crisi’ pucciniana, di quella lunga teoria di eroine ‘negative’ – da Manon a Mimì, da Floria Tosca a Ciò Ciò San e oltre, sino a Suor Angelica, fatti salvi i diversi contesti e le dissimili trame – donne singolarissime, ognuna una tipologia, ognuna un coacervo di sentimenti, conflitti, pulsioni, talora contraddizioni e per lo più idealismo, che di fatto popolano le partiture pucciniane. E tuttora commuovono, coinvolgono e fanno palpitare i pubblici di tutto il mondo.
Come noto, la partitura venne poi completata (secondo alcuni egregiamente, secondo altri un po’ meno) dal raffinato Alfano che, a onor del vero, con grande umiltà ed altrettanto mestiere, mise se stesso da parte, come giusto, ‘limitandosi’ ad utilizzare materiali di Puccini stesso, ‘montandoli’ con abile e cinematografica tecnica, conferendo un tono trionfale e quasi giubilante alla pur tragica vicenda. Più o meno inspiegabilmente alla ‘prima’ scaligera (postuma), Toscanini decise di non eseguire detto finale che ben presto, però, si affermò ovunque e tuttora viene proposto normalmente. Solo di recente un altro e ben dissimile finale è stato composto da Luciano Berio e viene talora proposto come pur valida alternativa.
Per l’allestimento torinese, Poda (e Noseda, che quell’allestimento aveva voluto e propiziato nel 2018), scelsero, peraltro non senza precedenti, di ‘risalire’ idealmente a quella storica prima e di concludere l’opera esattamente dove Puccini l’aveva lasciata, dunque alla commovente morte di Liù che per amore si sacrifica, per amore accetta una morte atroce, portando con sé il segreto del nome che lei sola custodisce, non prima di aver opposto – drammaturgicamente e musicalmente in maniera sublime («Tu che di gel sei cinta») – la ‘sua’ visione della realtà al cospetto della ‘dura’ Turandot, con indicibile fierezza e dolcezza nel contempo.
In sintonia con tale visione della vicenda, dal podio Bernàcer – governando l’intero spettacolo con mano invero salda – ha puntato, come già Noseda a suo tempo, su una interpretazione fluida dei primi due atti, a tratti forse fin troppo altisonante quasi a sottolineare (con qualche eccesso dinamico) come certe fortunate e appariscenti colonne sonore stile Kolossal in Puccini affondino le radici (di fatto, suo malgrado il musicista lucchese del cinema aveva implicitamente intuito le enormi potenzialità). Certo, avremmo desiderato qualche ulteriore sfumatura, qualche maggior raffinatezza – ad attenuare ad esempio una eccessiva sfrontatezza delle pur irrinunciabili percussioni – qualche tocco di bulino e qualche indugio qua e là (per dire, il terzetto delle pur risibili e sempre poco convincenti tre ‘maschere’ è parso un po’ tirato via). Detto ciò, apprestandosi alla morte di Liù la direzione di Bernàcer ha profuso partecipi attenzioni agli aspetti sia timbrici, sia dinamici e di fraseggi tali da rendere anche questa volta assai commovente la chiusura dell’opera. E in tal modo si esce da Turandot con il groppo in gola – molti i giovani, possiamo testimoniarlo, visibilmente commossi, con tanto di lucciconi – parteggiando ancor più per la ‘piccola, dolce’ Liù. Che nella fattispecie al Regio è stata l’ottimo soprano Giuliana Gianfaldoni (già l’avevamo apprezzata a Genova, anni fa nella Rondine), partecipe ed efficace, pur con un esordio un filino incerto, con qualche asprezza qua e là e alcuni passi in cui la sua voce rischiava di venire sovrastata dall’orchestra (a ben guardare non per colpa sua, vuoi per una non ideale sintonia orchestra/palcoscenico, vuoi per una sua collocazione arretrata sul palco, ad esempio quando è attorniata dalle ‘gemelle’, le altre Liù nero vestite, ma ecco che appressandosi per cantare la sua immortale pagina ha convinto, raccogliendo a fine serata meritati consensi.
E dunque merita ribadire – sulla sorta di quanto già si ebbe a scrivere le 2018 – la visione registico-scenografica di Poda che molto punta sul bianco abbacinante e sul nero. Una regia che, avvalendosi di scenografie sontuose e semplici al tempo stesso, sofisticati movimenti coreografici, con tocchi pop, e costumi di accattivante modernità, pone in luce gli assunti di cui sopra. E allora la scelta – discutibile a detta di alcuni, ma invero condivisibile e a nostro avviso molto efficace – di far per così dire ‘sparire’ Turandot stessa, attorniata da decine di sosia, come a dire ‘una, nessuna e centomila’ – è il libretto stesso, per bocca dei tre dignitari, a sottolineare metaforicamente come Turandot non esista, e dunque sia uno stereotipo – tant’è che nella scena degli enigmi si stenta a distinguere la vera Turandot, la valida Ingela Brimberg che affronta con sicurezza l’impervia parte, appena tradita dall’emozione in un paio di punti, dal novero delle sue sosia, simbolicamente bianco vestite (ma si sa che in Oriente il bianco è il simbolo del lutto) e poi in seguito nero-funeree. Brividi da parte del pubblico, come già quattro anni or sono, per la presenza di svariati ‘cadaveri’ maschili – ovviamente ad alludere ai precedenti pretendenti – come in un maxi obitorio (e si tratta dell’apertura dell’atto secondo), in procinto di venire ‘mummificati’. Una scelta forte, certo di impatto, ma a suo modo sensata e quantomeno coerente con l’assunto portante dello spettacolo.
Poda sfrutta poi abilmente i ponti del Regio e le piattaforme girevoli, gioca con la magìa dei colori e delle luci – ‘caravaggesche’, secondo le sue stesse parole alle quali è difficile opporsi – con eleganza e duttilità ammirevoli e molto altro ancora (pochi esempi: il viraggio sul rosso, vistosissimo in una scena tutta black&white, per l’allusione al sangue negli enigmi, la cupezza digradante fino al buio totale del finale o ancora le tre ‘porte’ a led, come nel Flauto Magico per i tre enigmi, centrali nella drammaturgia).
La regìa attenua, per quanto è possibile, quel che di pittoresco e naïf che di solito caratterizza i tre dignitari Ping, Pong e Pang (disimpegnati da Simone Del Savio, Manuel Pierattelli ed Alessandro Lanzi, spesso sul punto di smarrire l’aplomb ritmico negli insiemi, la sera della prima, e si spera che nelle repliche le cose si sistemino), evitando di farne come troppo spesso avviene, tre macchiette. Apprezzata la performance del georgiano Mikheil Sheshaberidze nei panni di Calaf: sale bene all’acuto, pur in presenza di un timbro non smagliante, ha evitato con intelligenza e sensibilità inutili gigionismi ed eccessi nell’immancabile «Nessun dorma», regalando emozione in «Non piangere Liù»; convincente sul piano scenico, a tratti un po’ incerto, verosimilmente in maniera intenzionale, a rendere l’inquietudine della situazione, come quando entra ed esce di scena per gli enigmi, riposando su una chaise-longue post modern, quasi citazione di un noto topos del design, in bilico tra elegante show room da Via Montenapoleone e lettino da seduta psicanalitica Vienna primo ‘900, che ci può stare. Davvero ottima la prova fornita dal navigato Michele Pertusi, il re tartaro spodestato Timur, accettabile l’imperatore Altoum restituito in maniera un po’ timida da Nicola Pamio. Allineati su un apprezzabile standard i comprimari. Come sempre, ad alto livello si rivelano sia il coro, istruito con cura ed eleganza da Andrea Secchi, sia il coro di voci bianche diretto da Claudio Fenoglio. Un cenno per la danzatrice Nicoletta Cabassi (Pu-Tin-Pao).
Uno spettacolo che si conferma di elevata qualità e grande efficacia. E pazienza per i soliti passatisti (ahinoi, anche tra i colleghi della critica) che vorrebbero l’opera imbalsamata nei tradizionali clichées (ma quali poi?) e questiona sul fatto che Liù già venga simbolicamente trafitta anzitempo da una freccia (rossa); così pure pazienza per coloro che eccepiscono con pedantesca ottusità sulla circostanza per cui Liù muore ‘simbolicamente’ restando in piedi e si crei una sorta di piccolo gap tra le parole di Calaf ed il loro incedere mano nella mano verso il fondo del palcoscenico. Il pubblico, a nostro avviso, è assai più intelligente di quanto talora si tenda ad immaginare ed accoglie, mediamente, salvo pochi retrivi, regie innovative, purché coerenti e solide. Ed è questo il caso dell’allestimento di Poda coadiuvato da Paolo Giani Cei: intervistando svariati giovani a fine spettacolo ne abbiamo avuta la piena conferma. E se qualcuno lamenta con fastidiosa supponenza la difficoltà di ‘capire’ l’opera alla sola visione, si può sempre obiettare il dovere di documentarsi, prima, dopo (e magari, perché no, anche ‘durante’ gli intervalli) ricorrendo ai mezzi digitali che oggi sono a disposizione di chiunque, salvo guardarsi in santa pace, grazie all’home video, mille Turandot ‘tradizionali’ per un proficuo confronto e per comprendere che ‘rileggere’ un’opera in chiave attuale non è solo questione di costumi e scene, bensì è faccenda di sensibilità, cultura, intelligenza, creatività, desiderio di approfondimento a tutto campo. E a tale obiettivo la visionaria e metafisica Turandot di Poda approda con assoluta sicurezza.