Unica data italiana per la tournée mozartiana: Requiem e Messa in do minore. Sul palcoscenico con i suoi storici complessi English Baroque Soloists e Monteverdi Choir
di Stefano Cascioli
In occasione dei 260 anni dalla nascita di Mozart, Sir John Eliot Gardiner ritorna sul compositore per eseguirne le pagine più importanti in occasione di una tournée di respiro europeo che culminerà a Londra il 27 gennaio, giorno esatto dell’anniversario. L’unica data italiana di questa tournée ha visto protagonista Gardiner, assieme ai suoi storici complessi English Baroque Soloists e Monteverdi Choir, lo scorso 21 gennaio al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, con un programma dedicato interamente alla musica sacra del genio salisburghese. La “Grande” Messa in do minore K 427 e il Requiem non sono soltanto capolavori della musica liturgica, ma anche due opere che, seppur per motivi diversi, sono rimaste incompiute, fatto che le rende così emblematiche ed affascinanti.
Una lettura, quella del filologo inglese, che ha risaltato la maestosità dell’opera, evidenziandone le sottili sfumature, con un controllo dell’amalgama ed una varietà timbrica incredibili
Del Requiem si è detto molto, ma la Grande Messa è ancora poco nota al grande pubblico. Nonostante sia una composizione dalla qualità eccelsa, di rado si sente eseguita nei teatri, tanto che questa esecuzione costituisce la prima assoluta della Messa in do al Teatro Nuovo.
Una messa monumentale, quella che Mozart aveva intenzione di comporre, più vicina alla severità della grandiosa Messa in si di Bach, che alla freschezza giovanile delle brevi Missae salisburghesi. Dell’opera ci sono pervenuti completi il Kyrie e il Gloria, mentre del Credo vennero composti solo il Credo in unum deum e l’Et incarnatus est. Del Sanctus è rimasto quanto è bastato ad Alois Schmitt per ricostruirlo, nel 1901, in una scrittura per doppio coro. Quella di Schmitt è l’edizione, leggermente modificata nell’orchestrazione, che Gardiner ha utilizzato sia per la storica incisione della Philips, nel 1986, che per il concerto di Udine.
Una lettura, quella del filologo inglese, che ha risaltato la maestosità dell’opera, evidenziandone le sottili sfumature, con un controllo dell’amalgama ed una varietà timbrica incredibili. Tempi comodi e pulizia estrema del suono (per gli strumenti d’epoca non è cosa semplice) hanno aiutato a creare una tensione unica. Sir John Eliot Gardiner non ha impugnato come di consueto la bacchetta, ma ha preferito la rotondità del gesto della mano, creando una simbiosi davvero speciale tra orchestra e coro, quest’ultimo protagonista davvero eccezionale della serata: dizione del latino di rara precisione, mai una voce che prevalesse sull’altra, un impasto di estrema omogeneità, che non è mancato di vigore, soprattutto nelle sezioni più incisive dei contrappunti nei fugati. Eccellente la prova dei solisti, soprattutto del soprano Amanda Forsythe, voce tanto ferma quanto pura, che con naturalezza si proponeva al dialogo con l’orchestra. Commovente, inoltre, la resa dei piani sonori nel Qui tollis, oltre che all’intonazione impeccabile e alla bellezza del suono del flauto (in legno), solista nell’Et incarnatus.
A differenza di quanto hanno fatto altri filologi, che hanno seguito edizioni basate sul manoscritto (Harnoncourt), o che hanno preferito versioni alternative (Hogwood, Mackerras), Sir Gardiner, così come fece nell’incisione Philips risalente anch’essa al 1986, opta per il completamento “tradizionale” del Requiem, curato dall’allievo Süssmayr, che, oltre ad aver completato le parti successive al Lacrimosa, ha modificato anche alcuni abbozzi che Mozart scrisse sul punto di morte.
Del Requiem, il direttore ha sottolineato la drammaticità teatrale, senza però conferirgli un carattere troppo misterioso e “romantico”, come siamo soliti ad ascoltare. Se qualche accademico tra il pubblico avesse pensato, dopo l’esecuzione della messa, che la compagine inglese fosse fredda e composta, nel Requiem si sarà certamente ricreduto. Sia l’orchestra che il coro hanno osato molto, nella morbidezza delle parti cantabili, così come nell’irruenza delle pagine più disperate, non senza risparmiare una certa aggressività che il suono aspro degli ottoni naturali e dei timpani barocchi hanno reso con grande impeto (un Dies Irae così violento raramente si è sentito). Impeccabile la scelta dei tempi, che assecondavano alla perfezione le intenzioni esecutive di Gardiner. Veloci, ma mai precipitosi o superficiali, e soprattutto coerenti all’interno dell’evoluzione drammatica dell’opera. Se il Confutatis spiccava per l’estremo vigore, non ha lasciato indifferenti quella leggera attesa sul soggetto della fuga doppia finale, come se fosse un angosciante ricordo del Kyrie iniziale.
Un gentile commiato, il bis che Gardiner ha concesso al caloroso Teatro Nuovo; un Ave Verum Corpus, la cui intima bellezza non ha fatto altro che coronare un concerto indimenticabile.
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