Nuovo e indimenticabile allestimento del capolavoro di Britten, grazie all’acuminata regìa di Loy, all’eccezionale direzione di Meister e al coraggioso protagonismo di Kaiser
di Francesco Lora foto © Monika Ritterhaus
L’ARTE DI DARE NEL TOGLIERE, di accarezzare nel percuotere, di sognare nel vivere. Il nuovo allestimento del Peter Grimes di Benjamin Britten al Theater an der Wien, cinque recite dal 12 al 22 dicembre, è l’emblema stesso del minimalismo strutturale: palcoscenico assai inclinato e sgombro di strutture, tinto del grigio azzurrato e freddo che rinvia al mare nordico e confonde acqua e spiaggia e cielo; non più che sedie spaiate, qui e là, portate dalla massa corale; un letto singolo e solitario in bilico sul golfo mistico; abiti che sanciscono la trasposizione temporale al 1945 della creazione dell’opera, ma in uno di quei contesti dimenticati da Dio dove gli abiti dei poveri assomigliano sempre a sé stessi in ogni epoca e quelli dei meno poveri informano soprattutto dello scarto sociale. La storia del Peter Grimes varrebbe nel 1830 come ai giorni nostri, d’altra parte, purché vi sia un mondo piccino, morboso, bigotto, ipocrita, annoiato, ignorante, pregiudizioso.
Quel mondo è tutto illustrato nello spettacolo con regìa di Christof Loy, scene di Johannes Leiacker, costumi di Judith Weihrauch, coreografia di Thomas Wilhelm e luci di Bernd Purkrabek; anche perché, in assenza di strutture, lo spettacolo consiste tutto nel lavoro con i corpi umani e nell’indagine psicologica: qui ogni cantante è attore, ogni attore è personaggio, ogni personaggio è ruolo. Vestiti che recano un’eccentrica macchia di colore e una gestualità meticolosamente studiata spingono alla ribalta i cammei di Hanna Schwarz come distaccata Auntie e di Rosalind Plowright come dolciastra Mrs. Sedley, oltre che la petulante e inseparabile coppia delle nipoti, qui tenuta da Kiandra Howarth e Frederikke Kampmann. Differenziati nel campionario del maschilismo provinciale sono a loro volta il Bob Boles di Andreas Conrad, lo Swallow di Stefan Cerny, il Reverendo Horace Adams di Erik Årman, il Ned Keene di Tobias Greenhalgh e lo Hobson di Lukas Jakobski.
Poi si entra nel cuore di un’acuminata esegesi drammaturgica, a partire da un’Ellen Orford che è l’unica donna in scena a indossare abiti virili, l’unica a gettare un ponte critico con la sfera dei maschi, l’unica a essere femmina ma a ricordare l’Oscar del Ballo in maschera o, meglio ancora, il Nicklausse dei Contes d’Hoffmann, ossia l’amorevole confidente che nulla chiede in cambio al tenore protagonista e che gli è musa anche nel mondo dei ciechi e dei sordi: tutto ha maggior senso se il canto e il garbo sono quelli del soprano Agneta Eichenholz, minuta e tenace, tanto giovanile ed elegiaca quanto tecnicamente salda in una parte che reclama all’improvviso fibra e nervi. E perfetto è il Balstrode impersonato con pudore, discrezione, quasi in punta di piedi dal baritono Andrew Foster-Williams: tutto lascia intendere che su di lui si sposterà, a tragedia avvenuta nel disinteresse generale, la morbosa attenzione del pettegolo villaggio.
Nel lavoro collettivo intorno al protagonista esce infine il capolavoro. Il tenore Joseph Kaiser, corso con poco preavviso a sostituire il previsto Kurt Streit, non ha in sé la limpidezza timbrica per reggere le frasi a fior di labbro né la sferza tecnica per dominare i passi più tesi e veementi. Porta però in sé un personaggio stupendo. Che è tale nella sua presenza teatrale: essa suggerisce un trentacinquenne avviato al primo decadimento fisico da una vita di tensioni e stanchezze, con i capelli che si diradano sul capo, i fianchi che cedono non più tonici, la canotta che non nasconde i peli sulle spalle. È una rappresentazione della verità e non della bellezza, ovvero della bellezza non olimpica dentro la verità. Per questo si sussulta all’ingresso del mozzo John: qui non si vede il bimbo innocuo, marginale e inconsapevole, ma un Ganimede diciottenne – l’avvenente danzatore Gieorgij Puchalski – venuto a far saltare il cuore a un Peter disilluso, impreparato, all’improvviso posto di fronte a un uomo con il quale vivere.
La traccia omofiliaca esce, nella regìa di Loy, tanto dura quanto delicata. Mostra un rapporto con evidenza reciproco tra Peter e John, e dunque vero sia nella tenerezza timida sia nella rabbia violenta. Un rapporto che è questione chiusa ed esclusiva tra i due, senza possibilità di comunicazione esterna, e con meno misteri che sottintesi alla luce del contesto: l’urlo di John che precipita nel vuoto suggerisce qui non l’incidente, ma il suicidio del ragazzo tormentato da un amore non ancora padroneggiato alla sua età di fronte a una società nemica. Il buio e la luce: l’interludio al chiaro di luna, pagina sublime, diviene qui la base per la più commovente coreografia forse mai vista da chi scrive, con Peter che esce dal fondo con John morto in braccio, e il sogno che il ragazzo si rianimi, riacquisti vita al fianco di lui, rimanga con lui senza la condanna e la minaccia esterna. Una coreografia-capolavoro è possibile anche con un tenore coraggioso e un danzatore complice.
Ma in questo Peter Grimes la regìa è a due poli: come Loy agisce sempre nella musica, così dal podio tutto è teatro. Il concertatore, Cornelius Meister, nemmeno quarant’anni, è una tra le più alte risorse odierne per la musica, e come sta segnando il presente per chi se ne vuole accorgere, così potrà determinare un futuro invidiabile. Il dominio tecnico che egli ha sulla ORF Radio-Symphonieorchester, sul rapporto di questa con l’Arnold Schönberg Chor e sul rapporto tra strumenti e palcoscenico è da capogiro. In questa partitura amata, esso gli consente di conciliare gli opposti come i grandi sanno fare. Si ascolta la brillantezza dorata, impassibile, festosa, virtuosistica, dettagliata nel particolare minimo e, nel contempo, si ascoltano il legato sommesso, il trasporto dignitoso, l’abbandono stanco, lo scatto rabbioso. Si ascoltano la duplicità stessa del Peter Grimes, la bellezza entusiasta di chi sa ben dirigere e la verità lancinante di chi ha da spiegare il perché di un capolavoro.