Le cantiones di Carl Orff approdano al Teatro Regio in forma scenica con un allestimento originale, direzione musicale di Jonathan Webb
di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
PROPORRE SULLE SCENE DI UN TEATRO LIRICO alcunché pensato per una dissimile destinazione costituisce sempre una sfida: che si tratti di un allestimento semi-scenico (come talora accade per alcuni capolavori sacri, quali ad esempio le bachiane Passioni) ovvero che si tratti di una vera e propria messa in scena di “qualcosa” che, pur essendo altro rispetto al teatro, possiede una sua insita teatralità. E dunque una partitura sinfonico-corale, ma dalle esplicite potenzialità spettacolari: è questo il caso di Carmina Burana di Carl Orff, la cui notorietà è tale che ci si può tranquillamente permettere di glissare sui tratti formali e linguistici che caratterizzano tale opera celeberrima, nonché assai amata dal pubblico di tutte le latitudini (stante la sua ingenua ed aproblematica immediatezza). Partitura, peraltro, nata nel 1937 – secondo le dichiarate aspirazioni dell’autore – come primo pannello di una possibile trilogia teatrale (I Trionfi) poi completata dai successivi (e invero assai meno fortunati) Catulli carmina del 1943 e dal Trionfo di Afrodite del 1953. Il destino ha fatto sì che queste fascinose Cantiones profanae, cui di fatto Orff deve tuttora quasi esclusivamente la propria fama, siano entrate in repertorio presso le sale di tutto il mondo dove vengono eseguite in forma di concerto. Pur tuttavia è proprio al teatro che pensava Orff e, non a caso, in veste scenica i Carmina Burana vennero rappresentati per la prima volta all’Opera di Francoforte l’8 giugno del 1937 sotto la direzione di Bertil Wetzelsberger, per la regìa di Oskar Wälterlin e con le scene di Ludwig Sievert. In Italia approdarono in veste scenica alla Scala nell’ottobre del 1942, a dirigerli Gino Marinuzzi con la regìa di Oscar Fritz Schuh e le scene di Caspar Neher.
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Da allora, nonostante le attestazioni di stima di uno Strauss che (pur sbagliando) preconizzava per Orff un luminoso futuro di compositore per il teatro in realtà mai avveratosi, i Carmina Burana fatalmente – merita ribadirlo – sono appannaggio delle sale da concerto. Ben venga la proposta di un allestimento scenico che di fatto si rivela dunque in sintonia con l’aspirazione primigenia del musicista bavarese che in realtà ha esplicitamente ‘sottotitolato’ il lavoro Cantoribus et choris cantandae comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis, di fatto delineandone l’ideale veste scenica.
La lunga premessa d’obbligo era del tutto dovuta, trattandosi per l’appunto di un titolo anomalo entro il cartellone di una normale stagione lirica, prima di accingerci a riferire del valido spettacolo andato in scena al Teatro Regio di Torino, a partire da giovedì 17 dicembre 2015 e replicato per quattro ulteriori recite. La produzione originale è a cura del Círculo Portuense de Ópera (Porto) in un allestimento del Regio stesso, per la regìa di Mietta Corli che, assistita da Anusc Castiglioni (con la direzione dell’allestimento a cura di Saverio Santoliquido), ha saputo ben ricreare un Medioevo idealizzato e un po’ stereotipo, festoso e policromo, in simbiosi con la lepida levità del carattere di queste cantiones; avvalendosi di fondali improntati a smagata naïveté, con video di cavalli al galoppo (realizzati in tandem con Vittorio Borrelli) e giovinette scalze biancovestite con treccia bionda d’ordinanza (in qualche caso pericolosamente in bilico tra Heidi e reminiscenze disneyane), ma pur sempre con gusto e innegabile eleganza: a fronte di ben altri allestimenti circolati per il mondo, ora eccessivamente concettosi ed intellettualoidi, in chiave post-modern, ora decisamente trash o splatter, come si suol dire. Nulla di tutto questo, e invece un tono sereno e primaverile, già a partire dalla scena d’esordio, prevedibilmente (ma anche efficacemente) volta ad evidenziare, con tono un poco didascalico, il moto della famigerata ruota della fortuna cui allude il testo, con tanto di corollario di lune e segni zodiacali.
Bene la caratterizzazione delle tre parti del lavoro, e dunque la Primavera che fa da sfondo a danze e pantomime, poi la Taverna resa con realismo gradevole e pur chiassoso, grazie anche alle ottime e variegate luci di Marco Filibeck che in pochi secondi garantiscono viraggi cromatici incredibili sui costumi dei coristi, meglio che se cambiassero abito in tempo reale, infine nella Corte d’amore. Numerose e per lo più gradevoli le trouvailles sceniche. Tra i momenti di maggior efficacia (per lo più privi di cadute di gusto), l’ambientazione del cigno arrostito e quasi pronto per essere divorato, più ancora la caratterizzazione della fanciulla solitaria che trascorre la notte nella tristezza, priva di un uomo che la intrattenga a dovere, ovvero la “scena” in cui alcuni clerici vagantes, quasi seriosi accademici, “descrivono” con tanto di lunghe bacchette-verghe, come in una lezione universitaria, gli effetti benefici dell’amplesso (Si puer cum puellula) e forse si poteva evitare l’esplicita allusione fallica delle verghe poi impugnate ad hoc dai clerici, già il testo è oltremodo trasparente in tal senso.
Molto d’effetto la visione della ragazza rossovestita (in corrispondenza del brano In Trutina con vaghe allusioni alle coreografie dell’indimenticabile e geniale Loïe Fuller). Qualche eccesso nella taverna, con movenze da can-can un filino fuori luogo e più ancora nella scena del bagno simmetrico, con tinozza dei due innamorati che poi ascendono ad una sorta di incoronazione ideale, ma valido, dopo la blasfema caricatura dell’Ave Maria (il corale Ave formosissima), il trapasso alla parte conclusiva che musicalmente – si sa – riprende l’esordio, chiudendo il cerchio, è davvero il caso di dirlo, e non solo idealmente. In sintonia con le scelte registiche i bei costumi di Manuela Bronze e Laura Viglione, molto appropriate, di notevole charme e di fatto funzionali le coreografie di Marcelo Ferreira (riprese da Anna Maria Bruzzese).
Sul piano strettamente musicale un plauso speciale va innanzitutto al Coro del Regio e al Coro di Voci bianche di Regio e Conservatorio, ben affiatati, ben movimentati in scena e in buona forma complessiva. Apprezzabile poi la valida dizione, frutto di un lavoro come sempre puntuale, accurato e scrupoloso da parte di Claudio Fenoglio: conseguentemente all’indirizzo dei cori sono fioccati applausi vivissimi e meritati. Bene l’Orchestra del Regio, pur in presenza di qualche stacco dei tempi curioso, se non addirittura bizzarro (o provocatorio: ad esempio suona inconsueto e francamente inefficace cambiare metronomo a metà del brano d’esordio), e questo da parte di Jonathan Webb che dal podio ha governato il tutto con passabile correttezza, in qualche caso lasciandosi scappare (ancora la sera dell’ultima recita) occasionali scollamenti ritmici e qualche imprecisione di attacco. Ma sono piccoli nei entro uno spettacolo di gran classe nel quale hanno avuto modo di primeggiare ottime voci soliste. E allora molto apprezzata la performance del soprano Laura Claycomb che ha saputo realizzare suoni filati e pianissimi da brivido in Dulcissime, conferendo toni suadenti e sensuali nel contempo a Stetit puella. Bene il baritono Thomas Johannes Mayer, appena qualche ineleganza in Omnia Sol temperat e che pur tuttavia avremmo voluto un po’ più possente e ironico nei panni dell’Abate di Cuccagna. Buono il tenore John Bellemer che nella pantomima del cigno ha trovato giusti accenti; ma se anche avesse osato un po’ di più e ci avesse messo ancora più humour, pur tenendosi lontano dal tono corrivo di altri suoi colleghi, lo avremmo ugualmente apprezzato.
Uno spettacolo, in conclusione, del quale conserveremo a lungo memoria. Applausi convinti a fine serata, per l’intera serie delle recite e alcuni ascoltatori – come da testimonianze raccolte in sala tra una chiacchiera a l’altra – che lo hanno addirittura visto due o tre volte.
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