Dopo l’avvio della stagione sinfonica, inaugurata con la Sinfonia n. 6 di Mahler, tre opere da diversi capi del repertorio dimostrano le alterne strategie del Teatro Comunale: Salome, Il barbiere di Siviglia e Rigoletto schierano interpreti ora provvidenziali, qual è il direttore Valčuha, ora non appieno all’altezza del compito.
di Francesco Lora foto © Andrea Renzi
Qualche entusiasta pronostica con insistenza che Juraj Valčuha sia il direttore musicale in pectore del Teatro Comunale di Bologna. Meglio non dar credito: il musicista slovacco ha già ricevuto le chiavi di casa dal Teatro di San Carlo e ha ragioni per tenersele strette. Non si saprebbe peraltro davvero con quale direttore, dopo la partenza di Michele Mariotti, il Comunale dovrebbe rilanciare le proprie incerte sorti. Ne viene a mente un solo che nel contempo abbia carriera illustre, mani libere ed eccellenti pregressi, ed è Roberto Abbado; mentre qualche gufo caldeggerebbe piuttosto la candidatura di Pinchas Steinberg, macchiata dal suo polveroso Trovatore inaugurale. Fatto sta che, a Bologna, Valčuha procura almeno bei sogni. Lo dimostra il concerto con il quale ha aperto la stagione sinfonica, nel Teatro Manzoni, il 2 febbraio scorso, dedicandosi monograficamente alla Sinfonia n. 6 di Mahler. Una sola sfortuna: il fatto che egli vi abbia posto mano giusto due settimane dopo che Riccardo Chailly, alla Scala, aveva dato luogo a un autentico miracolo interpretativo con la stessa partitura. Ma anche meriti lampanti: sotto la direzione di Valčuha l’Orchestra del Teatro Comunale dimentica di essere orfana, presentandosi nel suo migliore spolvero tecnico e con ammirata abnegazione verso il podio. Secondo le intenzioni della bacchetta, attua una lettura che, tutt’al contrario di quella di Chailly, esplosivo caleidoscopio timbrico e dinamico fino alla lancinante corrosione tematica e cromatica nel quarto movimento, consiste invece in un passo deciso e compatto, dove ciascuna fila offre il proprio asciutto contributo a un suono comune e unanime. Ciò è più che un’anticipazione alle cinque recite della Salome di Strauss, già in cantiere al momento del concerto mahleriano e anch’esse dirette da Valčuha, nel Teatro Comunale, tra il 15 e il 20 febbraio.
Anche qui si loda il suo lavoro, sicuro nell’equilibrare la partitura tra l’esotico e l’allucinato, senza stringere la presa intorno ai cantanti e però tenendo saldo in pugno, egli solo, il discorso musicale. L’allestimento adottato era il medesimo già visto nel 2010: scene di Alessandro Camera, costumi di Andrea Viotti e regìa di Gabriele Lavia. Il pregio di quest’ultima consisteva non tanto nella genialità del concetto, quanto nella preziosa esperienza di Lavia circa il lavoro diretto con gli attori. Ripreso senza di lui, lo spettacolo soffre dunque assai, e con la perdita della bussola gestuale rivela anche l’esiguità dell’impianto visivo. A scorrere la locandina e ad aprire gli orecchi, v’è però di che strabuzzare gli occhi. Nientemeno che Ian Storey tiene la parte di Herodes: non cede mai il personaggio alla macchietta, lo carica anzi di sottili inquietudini, rammenta in più occasioni quale statura di tenore eroico passi ancora per la sua gola. Per Herodias il lusso inaudito raddoppia: in tre recite è Doris Soffel: estroversa, tonante, iperrealistica; nelle altre due è Lioba Braun: introversa, bigotta, sottilissima. Il primo Jochanaan, Tuomas Pursio, si comporta da cantante ben educato. Per trovare il vero calibro del profeta, rimbombante e catastrofico come se venisse dall’altro mondo, meglio dirigersi sul secondo interprete: Sebastian Holececk. Lo stesso accade, per diversa ragione, nel caso dei due soprani che tengono la parte eponima. Ausrine Stundyte richiama attenzione per il timbro brunito, inedito nei panni dell’insinuante adolescente. Ma la seconda cantante, Elisabet Strid, arrivata in extremis per sostituire Manuela Uhl, giunge a entusiasmare: figura non più giovane, vocalità non più fresca, è però l’esempio perfetto dell’interprete che vigila su ogni battuta teatrale e sa domare ogni frase musicale, immolando al proprio pubblico ogni energia che le si trovi in corpo.
Partito Valčuha, il marzo del Teatro Comunale è la prova generale di due spettacoli da portare in tournée in Giappone: un Barbiere di Siviglia di Rossini, per cinque recite dal 17 al 28, e un Rigoletto di Verdi, per altrettante dal 19 al 30. Preoccupante il primo spettacolo. La recente lettura di Pier Luigi Pizzi al ROF di Pesaro è valsa a rammentare quale raffinata commedia sia Il barbiere di Siviglia, una volta che lo si sciacqui dall’immondizia della tradizione e si ripristini con ossequio in esso l’integrità del testo. A Bologna si è invece visto un Barbiere all’obsoleta maniera della provincia ridanciana: lo spettacolo con regìa di Federico Grazzini, scene di Manuela Gasperoni e costumi di Stefania Scaraggi ha per obiettivi quello di strappare la risata con una serie continua di gag, ma operando tali invenzioni trascura nel contempo i contenuti, gli affetti e i modi del testo teatrale in quanto tale. Puntuale la concertazione di Federico Santi, il quale avalla nondimeno brutti tagli, fino a quello, oggidì scandaloso, del rondò del Conte d’Almaviva nell’atto II, vale a dire il numero musicale verso il quale punta l’opera intera a mo’ di portante girandola conclusiva. Partiti Antonino Siragusa e Roberto De Candia dopo le prime due recite, la locandina rimane a sua volta quasi sguarnita di nomi che valgano una garanzia. Diego Godoy, come Conte, Vincenzo Nizzardo, come Figaro, e Cecilia Molinari, come Rosina, sono tutti armati di studio e impegno, ma le loro risorse non varcano la severa asticella belcantistica così come gli anni d’oro della renaissance l’hanno posizionata. Maturità ed esperienza mettono invece in sicurezza la prova di Andrea Concetti come Basilio, mentre chi ha tutte le carte in regola è il Bartolo di Marco Filippo Romano, un sempre più esilarante e impagabile erede dell’istrionica tradizione del basso buffo all’italiana.
Più complesso il resoconto intorno al Rigoletto. L’allestimento scenico in questione è il medesimo varato due anni e mezzo or sono al Comunale: una lettura registica cruda e incisiva, corredata di immagini lusinghiere o livide ma comunque pregne di significato, il tutto atto a liberare gli impliciti del testo verdiano. Anzi no: l’allestimento non è il medesimo, giacché Alessio Pizzech, Davide Amadei e Carla Ricotti hanno dovuto revisionare, rispettivamente, regìa, scene e costumi, e censurare con braghe pudiche il libero pensiero critico preesistente. Motivo: si dice e pare che in Giappone non avrebbero apprezzato un protagonista frammisto ai festini ducali in tacchi a spillo e calze a rete; e così via; e se è così, il cliente ha sempre ragione; ma il prodotto teatrale ne ha sofferto oltremodo. Ne ha sofferto anche perché Alberto Gazale, nella parte eponima, impegnatissimo, non vanta tuttavia più lo stupendo e facile rigoglio vocale di una dozzina d’anni fa. Il Duca di Mantova è invece uno Stefan Pop divenuto più attento a imbrigliare tecnicamente i favolosi mezzi di natura, nei quali tuttavia proprio ora comincia a manifestarsi qualche segno di limite e stanchezza, implicando lo stralcio della ripresa della cabaletta. Indisposta al debutto della produzione, la giovane Lara Lagni ha nondimeno tecnica adeguata a esibirsi sopra il male, onde far valere comunque la morbida continuità di registri, l’ottima proiezione e il generoso squillo, nonché il più importante tratto superstite della lettura registica: quello di una Gilda in vistosa evoluzione psicologica, da inesperta fanciulla-bambola tutelata dal padre a donna libera e orgogliosa delle proprie scelte. Canaglieschi come da tradizione lo Sparafucile di Abramo Rosalen e la Maddalena di Anastasia Boldyreva. Esperta sotto ogni aspetto la sollecita e raffinata direzione di Matteo Beltrami.