di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Quello che doveva essere un piccolo “caso” nel mondo dello spettacolo d’opera, ossia il recupero voluto da Chailly (e in parte da casa Ricordi) della prima versione torinese della Manon Lescaut di Puccini si è risolto domenica sera a teatro in una molto più modesta querelle sulle ragioni dell’allestimento. Come a dire che certi spettatori non riescono nemmeno oggi, siamo nel 2019, a uscire da un recinto di problematiche stantie mirate a distruggere qualsivoglia idea registica che possa deviare dalla tradizione. Ma quale tradizione? Quella di voler considerare a tutti i costi Manon un’opera da rappresentare con una evidenza di trine e merletti e un tragico finale in un deserto lontanissimo dove la protagonista muore di sete ? Semmai il problema di questa Manon risiedeva nel recupero di una versione che successivamente era stata ripudiata dall’Autore attraverso un numero notevole di rifacimenti. La questione non è quindi quella di riproporre a tutti i costi la versione originale di Torino o una delle tante versioni intermedie, bensì di chiedersi se in queste versioni ci sia della musica particolarmente bella che giustifichi il recupero, e qui forse si entra nel terreno delle preferenze personali. A chi scrive, il prolungamento del finale quarto è parso piuttosto ripetitivo e mancante della concisione propria delle versioni successive, né le aggiunte – pure interessanti – al finale dell’atto primo hanno spostato di molto gli equilibri della partitura come è generalmente conosciuta. Vedremo in futuro se la Ur-Manon avrà o meno fortuna nella programmazione dei principali teatri e del resto non era questa la prima volta in assoluto che Chailly dirigeva la versione incriminata, almeno in forma di concerto.
Il regista David Poutney e lo scenografo Leslie Travers hanno agito con la collaborazione della costumista Marie-Jeanne Lecca e grazie alle luci di Fabrice Kebour. Senza entrare nel merito delle differenti edizioni di Manon, Poutney e Travers hanno scelto un impianto che, se non nuovo in assoluto, era estremamente funzionale all’economia dei fatti. Il primo atto si svolge all’interno di una affollata stazione che vede l’arrivo di Manon su un normale treno passeggeri, nel secondo la ricca dimora di Geronte è trasformata in una serie di carrozze di lusso, come quelle che si vedono in certe illustrazioni dei vagoni dei convogli personali di qualche facoltoso regnante della seconda metà del secolo diciannovesimo. Qui si sprecano divani e divanetti sui quali avvengono gli incontri amorosi tra Manon e i suoi amanti. Nel terzo la classe dei vagoni è decisamente abbassata di livello, fino quasi a ricordare gli orrori del trasporto degli ebrei verso i campi di concentramento: in questo caso Manon e le compagne di sventura sono accatastate all’interno di un vagone e attendono l’appello che scandirà il rito della salita sul ponte della nave che le porterà in quello che sarà il territorio della Louisiana. L’unico momento critico dell’allestimento, o di non perfetta coerenza con l’idea di base, si trova nell’ultimo atto (che a rigore avrebbe dovuto svolgersi in una rimessa abbandonata di vecchio materiale ferroviario) dove nel ben noto e irrinunciabile deserto spuntano dalle dune di sabbia i lampioni e le strutture che si erano visti nel primo atto, elementi portanti della stazione un tempo così vivace e piena di viaggiatori.
Idee dunque per nulla irriverenti nei confronti di tutta una tradizione di spettacoli che hanno scandito la storia di Manon alla Scala e in tanti altri teatri nel mondo. Non si è capito quindi il motivo dell’avversa manifestazione da parte del loggione contro i responsabili dell’allestimento (il povero Poutney è pure caduto nella buca del suggeritore alla sua seconda uscita, forse innervosito dai fischi).
Nessuna reazione negativa vi è stata, invece, nei confronti di Chailly in qualità di responsabile della scelta della versione originale: il direttore ha ricevuto consensi unanimi e il pubblico ha così dimostrato di avere apprezzato le sonorità corpose da lui richieste all’orchestra, in linea con una lettura in cui l’aspetto “verista” ha certamente la meglio sul coté settecentesco, del resto minimizzato dallo stesso Puccini. Chailly ha tenute ben salde le redini dello spettacolo e ha contribuito per primo a sostenere una lettura musicalmente coerente della non facile partitura, giungendo a una vera e propria esaltazione del famoso Intermezzo che precede l’atto terzo, eseguito in maniera davvero vibrante . La compagnia di canto aveva lavorato a lungo con lui e dimostrava dunque di essere perfettamente a proprio agio e di conoscere alla perfezione i meandri vocali che caratterizzavano i rispettivi ruoli. Maria José Siri era più una Manon notevole dal punto di vista vocale (ma anche qui con pochi interventi che miravano a una vera, profonda interpretazione del ruolo) che non da quello scenico, tant’è che il regista prevedeva per lei nel primo atto l’abbinamento con una controfigura che impersonava il carattere e l’aspetto di una ragazzina sola e indifesa. In realtà le controfigure saranno ben più di una e la “vera” Manon le osserva, come in un lungo flash-back, a bordo di un carretto che si trova al lato della scena. Trovata già sperimentata in molti altri allestimenti operistici e che purtroppo faceva anche pensare a una inadeguatezza scenica tra l’aspetto della Siri e quello della giovinetta concupita da Des Grieux e Geronte. Quella della Siri è stata comunque una prova di notevole valore che se non ha meritato applausi a scena aperta (resi del resto difficili sia per l’andamento imposto dal direttore – e le scelte da lui dichiarate a chiare lettere in sede di conferenza stampa – che per la divisione in due sole parti per i quattro atti) ha mosso il pubblico a un concreto e unanime riconoscimento al termine dell’opera. Uguale sorte è toccata al Des Grieux di Álvarez, spesso mancante di mezze tinte e di un vero approfondimento interpretativo dei caratteri del personaggio ma tutto sommato appassionato interprete di un ruolo tutto giocato sulle corde della passione e della declamazione amorosa. Massimo Cavalletti ha perfettamente delineato il proprio ruolo di fratello interessato a ricavare tutto ciò che si poteva dalle grazie della sfortunata sorellina e allo stesso tempo si è calato anche in quello di amico e confidente di Des Grieux. Perfetto nella sua alterigia vocale e scenica è stato il Geronte di Carlo Lepore e agli applausi finali si sono uniti anche gli altri comprimari e ovviamente il coro guidato da Bruno Casoni. Per la cronaca, Chailly non si è presentato al termine della rappresentazione per una chiamata singola, cosa che invece hanno fatto tutti gli interpreti vocali, raccogliendo il successo cui abbiamo già accennato.