di Attilio Piovano foto © Pasuqlae Juzzolino
Felice apparizione a Torino, per il cartellone di Lingotto Musica, la sera di martedì 26 marzo 2019, della Kammerakademie Potsdam, formazione di buon livello, diretta in maniera eccellente dal ‘torinese’ Antonello Manacorda, già borsista della De Sono, oggi direttore artistico della compagine medesima e un palmarès di tutto rispetto. Programma sul versante romantico (o più propriamente tardo-romantico) e un vero e proprio crescendo con il culmine della Seconda di Brahms, all’esordio con qualche indeterminatezza, ma poi subito ‘decollata’ al meglio. E allora: quanta tenerezza in quel secondo tema e quanta grazia, disseminata qua e là, con momenti di euforica e pur trattenuta gioia che hanno destato grandi emozioni nel pubblico. Toccante il sublime Adagio dai dolci cantabili, tutto ricolmo di soavità e pudico riserbo, ineccepibile l’Allegretto con quella sua capacità di far rivivere atmosfere settecentesche, ma con spirito smaccatamente tardo-romantico e da ultimo una vera e propria apoteosi con il luminoso Finale dalla conclusiva e smagliante fanfara. Un plauso speciale a Manacorda per aver fatto emergere al massimo grado, quasi una lezione di stile e di storia della musica, quel frammento tematico per quarte discendenti sul quale Mahler costruirà la sua Prima Sinfonia. E all’ascolto ci si stupisce sempre della singolare circostanza.
Manacorda dirige con gesto ampio e preciso, pare accarezzare le singole sezioni di un’orchestra che annovera buone prime parti (gli ottoni e così pure i legni, ma altresì gli archi, apprezzati per il suono ora delicato ed ambrato, ora energico, incisivo), un’orchestra che di fatto s’impone – diciamolo – per la bellezza del suono, pur rifuggendo dai clangori plateali di una grande ‘sinfonica’. Ne è scaturito un Brahms pieno di eleganza e mille sfumature espressive che ha raccolto prolungati e vivissimi consensi a fine serata.
In precedenza si era ascoltato di Schumann il Concerto op. 129 per violoncello e orchestra, tutto intimismo ed interiorità, solista di lusso l’impeccabile Maximilian Hornung, classe 1986, vero fuoriclasse dell’arco, dal suono fascinoso e dalla tecnica sicura. Direttore e solista del Concerto schumanniano hanno ben colto l’esprit, il ‘colore’ specifico e peculiare, il carattere irrequieto, i turbamenti e le striature melanconiche che ne costituiscono il punto di forza e (per coloro che non lo amano) anche il limite, rispetto all’esuberante e scintillante Concerto pianistico scritto nella medesima tonalità, ma invero diversissimo per Stimmung. Non a caso Hornung ha evitato i toni troppo sfavillanti, rifuggendo dalle impennate flamboyantes e preferendo puntare come è giusto sul procedere ‘rapsodiante’ della pagina (dai tre movimenti che si susseguono senza soluzione di continuità), pagina ricca di nuances per lo più cineree, anche laddove pare prendere il volo e l’abbrivo in maniera irrefrenabile, ma sempre con una certa trattenuta serenità. Appena qualche (giusta e doverosa) concessione nella più ottimistica parte conclusiva. Applausi convinti da parte di tutta la platea e un Bach d’ordinanza come bis, eseguito con scrupolo filologico ed adamantina sicurezza, ma nel contempo con singolare magnetismo e innegabile comunicativa. Chapeau.
Un cenno infine, a ritroso, all’esordio di serata; e s’era trattato dal wagneriano Idillio di Sigfrido dove il corno ha primeggiato senz’altro, ammirato a fine performance, ma nel quale a onor del vero non tutto pareva perfettamente messo a fuoco. Forse l’eccessiva lentezza iniziale ha un poco nuociuto a un’interpretazione pur di accettabile livello. Bella la curva espressiva complessiva dell’Idillio stesso, centellinato con calligrafica (ma talora un poco soporifera) acribia, ed apprezzato il suono avvolgente, sinuoso degli archi. Di certo tutti conserveremo infatti un vivo ricordo dell’ancor giovane cellista del quale sarà interessante seguire l’ulteriore evoluzione nel tempo. Ad maiora, come si dice in questi casi.