di Redazione

vesperas_cover_211.inddUn cd davvero singolare, intrigante e stimolante, a riprova che la creatività contemporanea può ancora innescare emozioni a contatto con la grande e ultra secolare tradizione della musica sacra. Ecco allora che i due musicisti ungheresi – Zsolt Serei e Péter Zombola – si misurano con il format, come si dice oggi, l’uno dei Vespri festivi l’altro dei Vespri feriali (Vesperae per annum) della tradizione cattolica; conferendo una fascinosa veste soprattutto timbrica – fatta salva la dissimile cifra linguistica dei due compositori, il secondo un poco più ardito e – ai consolidati testi della Liturgia. Essi si riallacciano da un lato al passato, fondandosi dunque e non a caso su una scrittura solida, culturalmente avvertita, dall’altro saggiando nuove sonorità, per lo più suggestive e imbevute di sacralità. Lontane sia dallo sterile e astratto sperimentalismo di certe avanguardie che hanno ormai fatto il loro corso, sia nel contempo lungi dalla facile e talora corriva banalità di certuni musicisti intenzionati a cercare la popolarità purchessia, anche a prezzo di sommarie (e spesso capziose) generalizzazioni linguistiche. Nulla di tutto ciò in quanto ci viene proposto.

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Ecco allora, nei Vespri secundum Serei, fin dall’esordio (Gloria) il fascino di armonie ondulanti e per lo più consonanti in bilico tra modalismo ed echi slavi, le voci chiare in bella evidenza, la suggestione della scrittura a cappella, un andamento ipnotico che poi si fa palpitante, saporosi giochi d’eco, vaghe reminiscenze stilistiche, da Fauré a Britten, rivisitati pur tuttavia con originale sensibilità e una mutevolezza timbrica che attrae fin dal primo ascolto. Tratti arcaicizzanti (nel Dixit Dominus e così pure nel Salve Regina) come di organum medievale dalle rapinose quinte vuote che ben si coniugano alla monodia gregoriana collocata ad introdurre ogni sezione, si alternano a zone armonicamente più dense, ma pur sempre contrassegnate da una ialina trasparenza e una tramatura che pare attingere ispirazione alla polifonia palestriniana, reinterpretata con moderna sensiblerie: molti echi poi dei francesi, per dire un Duruflé o anche un Langlais, ad esempio nel toccante Magnificat dove l’aderenza al testo suggerisce momenti di intensa e icastica efficacia. Non tutto però è sospensione estatica, non mancano infatti i momenti di vivida accensione e i tratti quasi di danza.

Laddove con la partitura di Zombola gli strumenti vanno intercalandosi alle voci, la scrittura si arricchisce di suggestioni, e si tratta di campanelli ovvero di un organo memore di Janácek, ma anche di certo Ligeti che propone interludi di indubitabile presa, ora con un esordio assorto seguito da sonorità più turgide e solenni, ora tenuto in un clima di irreale fissità. La scrittura vocale tocca vertici di virtuosismo e sembra talora procedere dalla micro polifonia della Trenodia per i morti di Hiroshima di Penderecki, ma come addomesticata e depurata di tragicità, talaltra si affida a una sillabazione recto tono, appena increspata di cangianti agglomerati armonici. E allora ecco la sorpresa di improvvisi apici dinamici, agogici e timbrici che sforano il tessuto, movimentando le acque, per contro la placida fissità di non pochi momenti dall’incredibile bellezza sonora e dalla dolce rarefazione.

L’interpolazione di un lungo interludio di solo organo, ibridato dai barbagli dei campanelli, prepara il terreno all’apparizione del Deo Gratias. Improvvise luminescenze e cupe filigrane organistiche si alternano con naturalezza, e parimenti sonorità ora siderali ora quasi livide, ora più vivaci. Il Magnificat s’impone certo per la sua scioltezza, nonché per la sua apprezzabile concisione (vistosa, al confronto con la versione a cappella del collega che indugia invece a lungo) e per la sillabazione attenta alle risonanze del testo. Giù giù sino all’epilogo impreziosito di inattese sortite timbriche: sorprendente l’inabissarsi verso il grave prima del Salve Regina statico e arcaicizzante, con le voci che muovono moderatamente su un lungo doppio pedale di re e la, salvo in chiusura salire all’acuto coi campanelli che fremono. E da ultimo proprio la magia dei campanelli chiude la liturgia, come ancestrale tintinnabulum, dapprima quasi una sorta di favete linguis incoativo, poi in guisa di postludio, posto ad incorniciare l’intero rito dei Vespri ritagliando uno spazio altro, quello della preghiera e della meditazione, entro il fluire del tempo. Insomma un modo senza dubbio valido, quello dei due musicisti ungheresi, per rivisitare l’antico rito liturgico dei Vespri (cui non restarono certo insensibili musicisti del calibro di Monteverdi e Mozart) con buon gusto, cultura e – direi – anche l’afflato di una sentita, personale partecipazione. Un cd in grado di regalare emozioni al credente e, al tempo stesso, capace di toccare le corde più riposte ed intime anche dell’uomo scettico dinanzi all’Assoluto, grazie alla vis del tessuto sonoro ‘ispirato’ alla millenaria tradizione gregoriana.

Un plauso speciale alla Schola Cantorum Budapestiensis (direttori Tamás Bubnó e János Mezei) per la fusione e la varietà di colori – appena qua e là qualche piccola incertezza di intonazione, ma è cosa lieve dinanzi alle obiettive difficoltà delle due partiture – e così pure alle voci soliste di György Philipp, Márk  Bubnó, Tamás Bubnó per aver ben disimpegnato i non pochi interventi ad essi preposti; organo Levente Horváth Márton.

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Pubblicato il 2016-01-14 Scritto da AttilioPiovano

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