di Redazione

ravelL’intervista al pianista Bertrand Chamayou, pubblicata nel libretto che correda la recente incisione integrale delle opere pianistiche di Ravel (Erato), costituisce un’utile introduzione alle interpretazioni registrate nei due cd. Alle domande di Nicolas Southon, Chamayou risponde con pertinenza e densità tanto di informazioni quanto di lucidi giudizi critici su Ravel, sui suoi interpreti, sulla sua stessa formazione. Significativo, tuttavia, risulta anche ciò che non viene menzionato: fra gli interpreti storicamente più eminenti, manca il riferimento a Gieseking. E l’assenza non è casuale, perché si avverte in Chamayou una certa tendenza a privilegiare gli aspetti più cartesiani e meno orientati in senso simbolista della poetica di Ravel. Per il pianista francese tutto in Ravel è nelle linee, e per eseguirlo in maniera adeguata la cosa più importante è che non bisogna surligner: concetto chiarissimo (qualunque cosa esso significhi!).

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La lettura di Chamayou – elegante, rispettosa del testo, rigorosa nel ritmo, sempre attenta a restituire con evidenza l’ordito della forma – sembra effettivamente evocare le più note posizioni estetiche di Ravel, il compositore che non voleva “essere interpretato”. Ma negli esiti dell’interpretazione si produce spesso una sorta di rovesciamento: a imporsi come più riusciti, all’interno di un’integrale di buon livello complessivo, risultano proprio quei momenti in cui l’impostazione di Chamayou potrebbe in teoria risultare problematica, là dove l’intenzione creatrice raveliana si sostanzia di simboli e il pianismo rivaleggia con le scoperte timbriche debussyane o addirittura le anticipa (Jeux d’eau è del 1902). Paradossalmente, un’intenzione esegetica in cui la linea è sovrana si esalta qui proprio passando per la cruna d’ago delle rarefazioni e dei colori sonori: in Ondine, in Scarbo, nei Miroirs, nonostante si percepiscano sempre con puntigliosa e rara distinzione le linee e le note, Chamayou mette a segno colpi d’ala di immaginazione pianistica tali da ricreare per vie affatto particolari sia la seduzione timbrica che l’incanto evocativo.

Se il grande referente del Ravel anteguerra – la Natura, “foresta di simboli” – a suo modo si prefigura anche attraverso la lucida lettura di Chamayou, il “contenuto” del Ravel neoclassico – un Passato mitico intriso di preziosa nostalgìa – rimane invece distante dall’orizzonte di questa integrale. I tempi scorrevoli (nel secondo movimento della Sonatine come nel Tombeau de Couperin) uniti a un’attenzione alla trama costruttiva che a volte si fa persino eccessiva, tendono a restituire il Ravel che trasfigura le forme antiche come “classico” piuttosto che “neoclassico”, perdendo così di vista il significato del neoclassicismo raveliano come altra faccia del ripiegamento estetizzante. In questo senso, escludere dalla raccolta sia la trascrizione di Dafni e Cloe che, ancor più, La Valse – Chamayou non ritiene queste riduzioni all’altezza della perfetta definizione e della fluidità del pianismo originale di Ravel – contribuisce ad allontanare il decadentismo. Due rari brani completano i dischi: la trascrizione di Alexander Ziloti di Kaddish, una delle Mélodies hebraïques, e una sapiente, “falsa” Valse noble e sentimentale di Alfredo Casella, quasi a guisa di bis alle otto Valses raveliane eseguite da Chamayou con vivido scintillio sonoro.

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Pubblicato il 2016-02-21 Scritto da SantiCalabrò

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