Le musiche originali del compositore rinascimentale per il testo di Machiavelli, in scena a Torino con la regìa di Jurij Ferrini: satira sociale, caustica ferocia nello stigmatizzare la corruzione del clero, la focalizzazione di vizi e umane virtù, la presa in giro della stupidità
di Attilio Piovano foto © Mattia Boero
Strepitoso successo di pubblico, al Teatro Carignano, la sera di lunedì 14 settembre 2015 con La Mandragola – in assoluto una delle più belle commedie del ’500 dall’indicibile attualità – messa in scena per MiTo da Progetto U.R.T. (regia di Jurij Ferrini e musiche originali di Philippe Verdelot, scritte per la première fiorentina del 1518, interpretate dall’Ensemble Diagonale diretto dall’esperto Carlo Pavese).
https://www.youtube.com/watch?v=WZrmbRmRPSI
[restrict paid=true]
È tuttora vivo in me un ricordo lontano di anni liceali, riaffiorato durante la spigliata e raffinatissima recitazione da parte di Igor Chierici (Siro), Jurij Ferrini (Nicia), Matteo Alì (Callimaco), e ancora Michele Schiano di Cola, Claudia Benzi, Angelo Maria Tronca e Cecilia Zingaro nei ruoli di Ligurio, Sostrata, Fra’ Timoteo e Lucrezia. Ricordo che risale alla mattina in cui il professore di letteratura italiana, all’epoca già attempato e pur apprezzato docente – dantista dalla memoria ferrea e dalla dizione (a suo dire) perfetta, immancabile giacca di panno blu e pantaloni di vigogna grigi – con fare malizioso dissimulato da un’untuosa e finta pruderie volle mettere in difficoltà una nostra gentile compagna tanto avvenente quanto timida, casta e timorata (la faccenda accadeva in austero liceo torinese che il vento del ’68 aveva appena lambito di striscio: primi anni ’70 del Novecento, quando le compagne addirittura indossavano ancora il grembiule nero).
L’interrogazione verteva sul capolavoro di Machiavelli, per l’appunto, e il famigerato prof., grande amante di teatro dall’aplomb di consumato (e un po’ vanesio) attore (così credeva), niente affatto insensibile al fascino della timida compagna, provocante nonostante tutto, persisteva con smodata insistenza nel domandare dettagli piccanti sul povero messer Nicia: più propriamente esigeva che la fanciulla ne citasse l’impotenza, meglio ancora, le verosimili disfunzioni erettili. La poverina – tergiversando e arrossendo, perché all’epoca qualche compagna sapeva ancora arrossire – da ultimo tagliò corto usando una buffa perifrasi e affermò che «…ecco, come dire, Messer Nicia… non era in grado. Tutto qui». Immaginate l’ironia del professore (che commentò: «…perbacco, ‘non essere in grado’ usato in maniera assoluta!»), i nostri risolini e la sua vergogna. Oggi sarebbe partita una denuncia al prof. per stalking, oppure no: la liceale lo avrebbe senza mezzi termini freddato dicendo che messer Nicia «non poteva sc…are» o qualcosa del genere.
Per dire che l’argomento della Mandragola è davvero frizzante e vivido, l’intreccio ben congegnato: c’è la satira sociale, la caustica ferocia nello stigmatizzare la corruzione del clero, la focalizzazione di vizi e umane virtù, la presa in giro della stupidità, l’uso comico del latinorum per far impressione su sempliciotti e creduloni e molto altro ancora. Tutti elementi ben colti nella recitazione di bravissimi attori, grazie ad una regia asciutta, pulita, di gran classe. Somma eleganza, ironia, niente colpi bassi, bensì arguti ammiccamenti e una gestualità misurata, ma efficacissima. Scene inesistenti (non servirebbero), gli attori in abiti moderni (Lucrezia rosso vestita a spiccare sulle grisaglie degli altri) disposti su sedie a semicerchio e s’avanzano sul proscenio dando vita a i dialoghi nonché evocando con allusiva immediatezza i pochi luoghi in cui l’azione si svolge. Questo è vero teatro: far presa sull’intelligenza e sulla colta sensiblerie del pubblico (e non c’è bisogno, come alcuni, di attualizzare aggiungendo battute di bassa lega o altro), nulla di tutto ciò il testo recitato fedelmente con ritmo incalzante, cultura, intelligenza e somma perizia.
E le musiche? Bella l’idea di inserire i brani originali di Verdelot e affidarne l’esecuzione ai validi elementi dell’Ensemble Diagonale (Alena Dantcheva, Morena Carlin, Stefano Gambarino, Mattia Culmone e Guglielmo Buonsanti) che, sedendo accanto agli attori e avanzando quando occorre, accettano la sfida di cantare a voci scoperte, a voci singole, senza raddoppi come s’usa in un coro polifonico, dove eventuali piccole défaillances di intonazione possono venire in parte mascherate o ammorbidite. Ne risultano apprezzabile freschezza e immediatezza e, soprattutto, un equilibrato sound cameristico (e pazienza per qualche innegabile incertezza). Un’altro punto messo a segno da MiTo che, scommettendo sul pubblico, spazia dal grande sinfonismo al repertorio sacro, da Philipp Glass ai recital pianistici alla musica da camera al jazz e via elencando: un vero e poliedrico Festival.
[/restrict]
[purchase_link id=”32755″ style=”button” color=”blue” text=”Acquista e scarica in .pdf la recensione singola”]