Ancora tre repliche in programma alla Scala (questa sera, mercoledì 28 e venerdì 30) per Il ritorno di Ulisse in patria con la direzione di Rinaldo Alessandrini e con regia, scene e luci di Robert Wilson: è il secondo titolo dell’importante trilogia monteverdiana che, dopo L’Orfeo del 2009, si concluderà tra due anni con L’incoronazione di Poppea
di Patrizia Luppi
Già dal Prologo è evidente la cifra dell’allestimento, ricchissimo di materiale simbolico e continuamente pervaso da richiami pittorici: contro un fondale ispirato a un dipinto di Poussin – un’immagine di natura incontaminata – la Dea bendata vestita come Gilda arriva come su un tapis roulant con la pistola in mano, il piccolo Amore se ne va a cavallo di una tartaruga, un coniglio bianco sta accanto a un uomo piegato dagli anni… Poi Penelope, nitida e rigida come la nobildonna di un ritratto, tra pochi gesti ieratici intona il suo lamento pieno di dolore e di dignità, «Di misera Regina»: è Sara Mingardo, che per qualità vocali e proprietà stilistica incoroneremmo regina anche di questa edizione dell’opera monteverdiana.
Bob Wilson, coadiuvato dai giovani artisti che coltiva nel suo Watermill Center, ha firmato uno spettacolo magnifico quanto gelido: bellissima la progressione delle scene, dall’inizio nel palazzo di Itaca al finale, con gli enormi blocchi squadrati di pietra che evocano una prigione sepolcrale – quella che racchiude il cuore di Penelope – e che man mano scompaiono in un percorso verso la libertà e la luce. Perfette le luci, elegantissimi i costumi di Jacques Reynaud; ma ogni tanto lo spettatore ingenuo dentro di noi si ribella: è possibile, tanto per dirne una, che, dopo vent’anni che attende il suo sposo con profonda nostalgia, Penelope nel ritrovarlo accenni solo un lieve moto di sorpresa? È possibile in questo tipo di teatro, dove gli affetti non sono mai dichiarati platealmente ma decantati attraverso un filtro, e il palcoscenico è fisicamente accanto al pubblico, ma in realtà a distanza siderale.
Ancor più che nell’Orfeo, dove l’ensemble strumentale non era del tutto omogeneo, la realizzazione musicale è di primissimo ordine. È qui che si ritrovano tutti gli affetti e tutta l’espressività, nella direzione vivida e partecipe dell’esperto Rinaldo Alessandrini (curatore della nuova edizione critica delle opere di Monteverdi) a capo di un gruppo di una ventina di strumenti d’epoca: il basso continuo realizzato dal Concerto Italiano è, per puntualità e fantasia, una festa per l’orecchio. Di buon livello medio e ben assortita la compagnia di canto.