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Beh ecco, occorre ammetterlo: fa sempre un certo effetto trovarsi assieme ad altre 7.000 persone – diconsi settemila – ad ascoltare musica in un Palazzetto dello Sport, insomma un Palaolimpico: per la precisione il torinese PalaIsozaki costruito per le Olimpiadi invernali del 2006. Se poi si è lì non già per ascoltare un Vasco Rossi, una Lady Gaga, una Avril Lavigne, una Laura Pausini o i Negramaro (e via elencando) bensì la Südwestdeutsche Philharmonie Konstanz, le aspettative si fanno pressanti e la temperatura emotiva sale. Se poi si sa che la compagine orchestrale, diretta dal greco Vassilis Christopoulos, si accinge ad aprire le cateratte dello stravinskijano «Sacre du Printemps» e poi, nella seconda parte della serata, affronterà i sempreverdi «Carmina Burana» di Orff assieme al Chor der Bamberger Symphoniker, le premesse per un evento ricco di suggestioni ci sono tutte. Il colpo d’occhio della folla sulle gradinate degli anelli – venerdì 16 settembre – era senza dubbio spettacolare.
Ancora una volta MiTo è “anche” questo: portare la classica ad un vasto pubblico, mediamente non avvezzo a simili ascolti, e con prezzi assolutamente popolari: il problema semmai è come riuscire a catturare una quota almeno, che so anche solo il 5%, di quelle 7.000 persone e “convincerle” a ritornare ad ascoltare la classica in maniera sistematica, durante le normali stagioni, alla Rai o all’Unione Musicale, ma il discorso sarebbe complesso e investe questioni di marketing, di natura sociologica e altro ancora, basti averne accennato in questa sede, magari qualche lettore ha un’idea, una formula da lanciare, chissà. Gli anni scorsi con MiTo trattavasi della beethoveniana «Nona», ed era obiettivamente più facile e quasi scontato; quest’anno si è voluto osare di più, e il pubblico – occorre ammmetterlo – ha reagito bene: sia numericamente, sia in termini di consenso, misurabile negli applausi convinti e protratti a fine serata, complice certo la spettacolare resa dei più immediati «Carmina». Ma già al termine del «Sacre» non sono certo mancate le reazioni positive.
E dire che il «Sacre» non è musica facile. Vien da dire, ha cento anni e li porta benissimo, ovvero: mantiene tuttora la sua graffiante e dirompente carica e ogni volta che lo si ascolta accade di pensare a quanto sconvolti dovettero essere (comprensibilmente) gli ascoltatori di quella mitica (e burrascosa) première parigina. Come è stato dunque questo «Sacre» secundum Christopoulos dal gesto chiaro e dalla cordiale comunicativa? Ebbene, s’è trattato di un «Sacre» – a nostro avviso – fin troppo addomesticato, fin troppo garbato e charmant; in altri termini, avremmo voluto più vigore, avremmo immaginato che in un Palasport (e a maggior ragione grazie all’inevitabile amplificazione, di fatto intelligente e sagace) quegli scuotimenti tellurici che in sala da concerto fanno sempre il loro effetto risultassero ancora più immani, ancora più terrificanti. Insomma ci si aspettava più aggressività, sonorità ancora più brutali e invece tutto è parso per l’appunto addomesticato, non troviamo altro sinonimo. Probabilmente il suono, amplificato con prudente parsimonia, stentava a raggiungere gli spettatori come in una normale sala da concerto. S’è apprezzata la lettura analitica di Christopoulos che, nel contempo, non ha mai smarrito la visione d’insieme, e così pure è da rilevare la cura dei particolari che permetteva di conferire a quelle plaghe più intimiste del «Sacre» il giusto senso del mistero e dell’enigmatico. Di innegabile effetto le conflagrazioni nella spettacolare «Glorificazione dell’Eletta».
Poi i «Carmina Burana», ovvero quel mix di naïf e colto che da sempre ne garantiscono il successo: e qui sì che le sonorità apparivano dove occorre imponenti e massive, fin dal memorabile esordio «O Fortuna» che sempre sorprende ed emoziona; forse s’è intervenuto sull’amplificazione che pure non aveva nulla di fastidiosamente artificioso, ed anche nel dare poi man forte alle voci soliste non faceva storcere il naso se non ai talebani del suono, insomma ai pochi puristi doc. Ottimo davvero il coro (ben istruito da Pablo Assante), specie nelle sezioni femminili, assai ammirate per intonazione e possanza. Ed ora le valide voci: bene il tenore Hans Werner-Bunz, gagliardo, ma anche sensibile: apprezzata la sua ironia (anche nella mimica facciale, riverberata dagli schermi) nell’affrontare la celebre parodia del cigno fatto arrosto, «Olim colueram», bene il baritono Daniel Schmutzhard (ha divertito nella caricatura pseudo gregoriana dell’abate di cuccagna che va cantillando «Ego sum abbas»). Molto bene – e senza dubbio di qualità superiore rispetto agli interpreti maschili – il soprano Morisol Montsalvo, dalla raffinata e conturbante mise color sabbia con vertiginoso décolleté. Voce calda, molta sensibilità e intelligenza; ha regalato istanti di vera emozione con una buona dose di doverosa sensualità nei celebri passi: da «Stetit puella» a «In trutina» al delicato «Dulcissime» dove ha sfoderato note filate e acuti puri, adamantini ben assecondati da un’orchestra capace di trascorrere dai clangori d’apertura a rarefatte e diafane estenuazioni. E ancora: molto humour nella celebre chanson a boir che (sotto il profilo testuale) si sa, è una gustosa parodia del «Die irae dies illa» («Bibet ille, bibet illa»). Grande festa finale e pubblico alle stelle che non voleva saperne di sfollare dalle gradinate.
Da ultimo un cenno doveroso alle felici riprese video ed all’ottima regia (perché di vera e propria regia video si è trattato) sicché il vasto pubblico, grazie ai consueti due ampi schermi, ha potuto seguire come sulla partitura le prime parti di volta in volta impegnate (fra queste la bella, bionda e vigorosa percussionista). Anche questo ha un valore di natura pedagogica, se ci è concessa l’espressione, che non vuol essere né professorale, né snob, bensì volta a rilevare il senso di un’operazione non solo pubblicitaria, ma culturale in senso lato: la classica per il vasto pubblico in un ampio spazio, perché di questo si tratta.
Attilio Piovano