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Il gruppo Schola San Rocco impegnato al Bologna Festival con un repertorio poco eseguito (o misconosciuto) di celebri compositori
È nel cuore medievale di Bologna che si è aperto il secondo appuntamento (il 12 ottobre) del progetto Riflessioni corali all’interno della rassegna “Il nuovo l’antico” del Bologna Festival 2011. Un’occasione per ascoltare pagine quasi misconosciute e molto impegnative, non solo per l’ascoltatore, con un programma preparato per l’occasione, dedicato a varie espressioni del romanticismo tedesco. Sarebbe più aderente il termine Rifrazioni; infatti, come in un complesso gioco di specchi, le musiche ascoltate ci hanno proiettato in un continuo rimando tra passato (evocato) e futuro (immaginato), come a significare un presente immanente, con sempre protagonista la voce umana. L’occasione era quella giusta per immergersi in musiche, come si diceva, poco note o addirittura dimenticate, e al tempo stesso ascoltare un gruppo di livello internazionale, la Schola San Rocco, ben diretta da Francesco Erle, ed alcune voci interessanti, nonostante la defezione (tracheite) della solista “storica” del gruppo, Giovanna Damian, che ha anche scompaginato in parte il programma previsto; sicuramente la suggestiva ambientazione dell’Oratorio San Filippo Neri, pregevole anche nell’acustica, ed un pubblico attento e rispettoso del luogo hanno favorito la buona riuscita della serata.
La musica, dunque! L’apertura con il Te Deum scritto nel 1826 a 17 anni da Felix Mendelssohn, nello stesso periodo in cui l’autore approntava il Sogno di una notte di mezz’estate e l’Ottetto per archi, due lavori sicuramente più noti e che danno chiaramente la portata del giovane compositore. Nonostante l’età, si è di fronte ad un già esperto artigiano della sostanza sonora. Forte promulgatore della cultura musicale e di mentalità religiosa molto aperta, lo stesso Felix adattò al tedesco ed all’inglese, rispettivamente per i riti protestanti ed anglicano, questa composizione (qui in latino ad uso del rito cattolico). Cultura poliglotta, quindi, anche musicalmente: infatti Bach è già presente nella mente del compositore, che da lì a breve (1829) darà il via alla Bach Renaissance con l’ormai famosissima esecuzione della Passione secondo Matteo. Vocalità e aspirazione ai modelli bachiani trovano una prima realizzazione soprattutto nel Coro introduttivo (Te Deum Laudamus) e nel gioioso Benedictus. Buone complessivamente le prove dei solisti, che Mendelssohn prescrive per otto voci a volte presentate in Ottetto dialoganti col doppio coro, e senza il coro nei due Quartetti Patrem immensae majestatis e Te Ergo Quaesumus: il potente e suggestivo Fulvio Fonzi (basso), Carlo Timillero (tenore), Giulia Semenzato (ottima voce di soprano), Paola Bolla (Alto) e, nel Te Ergo Quaesumus il baritono Yiannis Vassilakis.
Il continuo, che Mendelssohn prescrive per organo, cello e basso, qui è eseguito dal solo organo positivo, affidato alle mani sicure e precise di Silvio Celeghin, “eclettico tastierista classico” come si definisce lui stesso, che è anche pianista, clavicembalista e da alcuni anni porta in giro con appassionata dedizione uno strumento di nuova (ed antica!) concezione, il doppio pianoforte con pedaliera Doppio Borgato, strumento che ricalca le antiche tastiere con pedaliera (già Johann Sebastian Bach possedeva un clavicordo a pedali) e al tempo stesso unisce pianoforte e organo; con questo strumento Celeghin esegue i repertori di Schumann e Liszt per Pedalflügel, ovvero Pianoforte con pedali in una traduzione approssimativa (per maggiori informazioni su questo strumento e sulla storia del pianoforte con pedaliera vedi www.borgato.it e www.testiweb.com/pianoforte.htm).
In definitiva, nel complesso questo Te Deum risulta un po’ discontinuo, alcuni momenti sono notevolissimi – come l’Ottetto e Coro Dignare Domine/Miserere dove le “incursioni” dei solisti nel tessuto corale, le modulazioni improvvise ed il forte cromatismo mettono in evidenza l’abilità del gruppo: sicuramente il pezzo più interessante – altri invece meno; a volte si ha la sensazione dell’esercizio di stile, forse a sottintendere la volontà di esplorare territori diversi; le cadenze, certune di sapore quasi rinascimentale, le atmosfere romantiche e i fugati contrappuntistici si susseguono e si mescolano con effetti stranianti, non sempre efficacissimi.

Di stampo decisamente romantico (il vero Mendelssohn, alfin!), e di ben altro spessore, è l’Inno Hör Mein Bitten, per soprano, coro e organo, adattamento dello stesso compositore della parafrasi (in inglese) del Salmo 55 da parte del poeta britannico William Bartholomew. Scritto nel 1844, presenta una forma durchkomponiert, dove la musica aderisce alla perfezione ai diversi momenti di questa accorata preghiera. Nella prima stanza (delle quattro complessive in cui è suddiviso l’Inno), un Andante affidato esclusivamente al solista (la voce chiara di Lisa Kaltenmeier che affronta questa pagina con molta naturalezza), inizialmente ad una richiesta di ascolto (in un maggiore ondulato e sereno) ne segue una d’aiuto vero e proprio (su “Ich bin allein”) con una modulazione in minore. È dalla seconda quartina, a carattere responsoriale, che entra il coro; si tratta di un Allegro moderato in 3/8 con ritmo puntato, di carattere più energico, dove la voce del coro incalza (“I nemici mi sovrastano”). La terza parte apre con un lungo recitativo (ritorno al metro di 4/4) di nuovo affidato principalmente al solista, dove la preghiera si fa ancora più accorata, con presagi di morte e di solitudine dove il Coro rientra con l’invocazione al Signore (Gott, Hor’ mein Fleh’n). Chiude una vasta sezione dove l’ultima stanza viene prima cantata dal soprano poi ripetuta col coro, in un finale ricco di suggestioni che quasi sfuma in accordi in pianissimo affidati al solo organo.
La seconda parte del concerto presentava una variazione sul programma, aprendo col brano previsto come finale, l’arduo Der Abend (La Sera) op.34 n.1 di Richard Strauss per doppio coro a cappella su testo di Schiller. Irta di difficoltà, con modulazioni continue ed inattese ed un forte richiamo di stampo wagneriano, è pagina complessa e al contempo finemente cesellata, che aderisce fedelmente al testo, quasi a sostituirsi ad esso nei richiami mitologici ed aulici. Poesia sonora che Strauss tratta con il doppio coro in realtà a 16 parti reali, il che rende l’esecuzione veramente impervia, fin dall’attacco dei soprani che intonano lo stesso sol ad unisono ma ad entrate successive, con effetto quasi “siderale”, fino al finale struggente, in un morbido mi maggiore che preannuncia l’arrivo della Notte ed il riposo degli Dei Eros (Amore) e Febo (Apollo). Purtroppo qualche caduta di registro mina la perfetta intonazione del finale, pregiudicando in qualche modo la resa complessiva.
La Missa Canonica WoO 18 di Brahms rappresenta uno dei suoi primi tentativi di realizzare musica vocale; pur senza scrivere mai un’opera intera, Brahms per tutta la carriera ha scritto per voci soliste o per “mixed choir”. La successiva esperienza ad Amburgo con la direzione del coro femminile Frauenchor può avere avuto un ruolo determinante nella realizzazione delle grandi opere vocali, soprattutto quel Deutsches Requiem che da solo lo porrebbe nell’Olimpo dei più grandi. Pubblicata postuma, questa breve Messa per voci prevalentemente femminili (SSAA o SSAT) sarebbe da considerarsi incompleta, mancando del Gloria e del Credo, omissione che potrebbe essere dovuta al fatto che l’utilizzo di una forma canonica avrebbe dilatato oltre misura testi già lunghi, con squilibri nella forma, che sappiamo essere così importante nella produzione del compositore amburghese. Se il Sanctus per dimensioni e linee melodiche sembra veramente solo un abbozzo, e l’Agnus Dei, pur piacevole, mostra troppe reminiscenze del Requiem mozartiano, è il Kyrie il pezzo più interessante; è assolutamente compiuto, e dimostra come mediante l’assimilazione profonda del genio di Eisenach si possa trattare efficacemente il contrappunto senza restrizioni normative mantenendo alta la qualità del dettato melodico. Altra storia il brevissimo Benedictus di sole 18 battute, che pare affondare in un diatonismo prerinascimentale (quasi un quadro preraffaellita) e al contempo richiama musiche novecentesche, tanto è elementare il trattamento contrappuntistico e “immobile” al tempo stesso, mentre le linee melodiche sono improntate ad un modalismo quasi glaciale. Composizione come sospesa, dove il maggiore della tonalità scompare davanti alla staticità delle armonie. Qui il coro sembra perfettamente a suo agio, come confermerà ampiamente il bis proposto.
Chiude il concerto lo splendido Graduale per coro a cappella Christus factus est dalla Liturgia del Giovedì Santo di Anton Bruckner; il corpus di opere sacre del compositore austriaco, cattolico osservante, è piuttosto esteso, tanto che, essendo egli un fervido sostenitore del movimento ceciliano nato nel 1830 per il recupero della polifonia classica, si adoperò molto per la causa; è del 1867 il Congresso di Bamberga promosso dal movimento, ed è del 1879 questa composizione, coeva di altre a carattere sacre della liturgia cattolica in una serrata “gara” con l’altro campione del romanticismo di fine Ottocento, Brahms. Il Christus vede, secondo l’illuminazione di Sergio Martinotti, il compositore sfuggire al tentativo del movimento di «sacrificare ogni autentica libertà inventiva ad una statica regola normativa» e offrirci al contrario una pagina di rara bellezza. Ieratico e quasi angoscioso, il brano, che a tratti richiama l’attacco dell’adagio dell’Ottava sinfonia, ha tuttavia un grande respiro sinfonico: lo testimoniato la prima versione (del 1879), che vedeva il doppio coro affiancato 2 violini e 3 trombe, successivamente revisionata due volte e poi pubblicata definitivamente nel 1934 nella versione attuale per coro a 4 voci a cappella. L’attacco, scritto in un vago modo frigio, ha un grande afflato religioso, testimoniato da un andamento ritmico quasi processionale, e sulla frase conclusiva Super Omne Nomen (quasi un gioco di parole) vede i suoni rarefarsi, mantenendo al contempo una solennità grandiosa. Ottime le dinamiche e l’intonazione del coro che conferma nel bis (l’inaspettato ma gradito Arvo Pärt e la sua Settima Antifona O Immanuel dal Magnificat) la propria dimestichezza con questi repertori.
Andrea Bellini