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Gergiev dirige (al Regio) l’opera di Prokof’ev, la cui prima vera rappresentazione ebbe luogo alla Fenice nel 1955. Allestimento ormai storico del Mariinskij di San Pietroburgo (pluri premiato e trasferito in video dalla BBC) in co-produzione con Royal Opera House – Covent Garden di Londra
di Attilio Piovano
È accaduto purtroppo molte altre volte: che l’autore di un capolavoro assoluto non faccia in tempo a vederlo rappresentato, o quanto meno, come nel caso di Bizet e della sua «Carmen», non faccia in tempo a misurarne il successo. Con Prokof’ev e «L’Angelo di fuoco» le cose andarono in maniera ancor più dolorosa: di un capolavoro dalla storia oltremodo travagliata si tratta, composto tra il 1920 ed il 1927. E Prokof’ev vi dedicò un’attenzione specialissima, lavorando a rifinire l’orchestrazione in maniera quasi maniacale (e si sente). Ma la partitura, suo malgrado, suscitò perplessità e nonostante l’interessamento di Bruno Walter, che in primis promise, ma poi rinunciò, Prokof’ev riuscì a malapena ad ottenere l’esecuzione del solo secondo atto (e in forma di concerto) grazie a Koussevitzki. Ci si mise poi subito di mezzo il regime che bollò il soggetto dell’opera come decadente. Deluso ed amareggiato, andati in fumo i progetti col Metropolitan, Prokof’ev che ci aveva lavorato con un entusiasmo senza eguali, riversò parte dei contenuti musicali dell’«Angelo» entro la «Terza Sinfonia». Ma dell’opera non se ne fece nulla e il 25 novembre del 1954 Prokof’ev era ormai morto da un anno quando «L’Angelo di fuoco» venne finalmente eseguito (non ancora in forma scenica) a Parigi in versione integrale (cinque atti e sette quadri). Ma la vera prima rappresentazione ebbe luogo sulle scene della Fenice solamente il 14 settembre del 1955, con la direzione di Sanzogno e Strehler regista di lusso.
Mimi e acrobati nudi, simbolicamente (e provocatoriamente) bianchi, a rendere la presenza misteriosa, ma reale, nella loro fisica immanenza dei demoni minori che abitano fin dall’infanzia la mente e le fantasie allucinate di Renata
Opera fascinosa ed altamente suggestiva, quasi nel senso etimologico del termine, dal soggetto quanto meno inconsueto e invero non facile, drammaturgicamente complessa, «L’angelo di fuoco» è innanzitutto una partitura di incredibile bellezza: Prokof’ev stesso trasse il soggetto dal romanzo omonimo di Valerij Brjusov, e ne sortì un libretto di singolare efficacia. Più ancora, Prokof’ev, su un soggetto ambientato nella Germania medievale che intreccia magia ed isteria collettiva, inquisizione e demoni, monache assatanate ed abiezione, sbrigliò la fantasia costruendo scene di grande fascino soprattutto timbrico e così pure ritmico (segnatamente a partire dal second’atto). Il Teatro Regio di Torino ha inserito coraggiosamente in cartellone il titolo che non appare di frequente nei teatri ed il russo Gergiev, che l’ha portata in trionfo nel mondo, occorre anticiparlo, la dirige davvero magistralmente.
Al Regio dunque «L’Angelo di fuoco» è in scena dallo scorso mercoledì 1° febbraio, l’abbiamo visto sabato 4 in occasione della prima ed assai affollata replica, molto applaudita e fa piacere segnalarlo, dacché il pubblico – e in tal caso si trattava di un pubblico con presenze straniere – spesso di fronte a titoli poco frequentati si mostra perplesso, verrebbe da dire a priori, per partito preso: e invece no, è accaduto il contrario. Rimane in scena fino al prossimo sabato 11. Si tratta dell’allestimento ormai storico del Mariinskij di San Pietroburgo (pluri premiato e trasferito in video dalla BBC) in co produzione con Royal Opera House – Covent Garden di Londra. Spettacolo di forte impatto visivo. Ed è giusto che sia così, grazie alla sapiente regia di David Freeman che ‘punta’ moltissimo sulla presenza di svariati (ed assai validi) mimi e acrobati nudi, simbolicamente (e provocatoriamente) bianchi, a rendere la presenza misteriosa, ma reale, nella loro fisica immanenza (è il caso di dirlo) dei demoni minori che abitano fin dall’infanzia la mente e le fantasie allucinate di Renata.
Scene scarne ed essenziali, ma perfettamente funzionali, di David Roger, bella la realizzazione delle case di Colonia coi tetti aguzzi ed il balconcino da cui compare Heinrich nelle sembianze dell’Angelo; Roger firma anche i sontuosi costumi cinquecenteschi, un poco fredde e crude invece le luci di Steve Withson e Vladimir Lukasevic. Uno spettacolo in cui i mimi-acrobati, dapprima immobili e appollaiati ai lati della scena, iniziano a poco a poco a muoversi e ad animarsi, sollecitati dalla partitura stessa, e da ultimo sono i veri protagonisti, nella scena corale di fanatismo isterico delle monache, nel convento dominato dalla figura dell’Inquisitore. Gergiev (coadiuvato dall’assistente Mikhail Agrest e da Natalija Domskaja, maestro preparatore) ha compiuto uno straordinario ed accurato lavoro di concertazione, potendo contare sull’Orchestra del Regio in una forma smagliante. E così il risultato è una resa magnifica, specie a partire dal secondo atto, ovvero – come si diceva – dal momento in cui la partitura decolla, insomma dalla scena di Colonia e poi nel laboratorio del mago Agrippa. Se in apertura dilaga un clima cupo e allucinato cui la musica aderisce perfettamente, in seguito a prevalere è una dimensione improntata invece ad irrefrenabile dinamismo ben evidenziato da Gergiev.
Sul fronte delle voci (un cast di alto livello) applaudito l’ottimo soprano Mlada Khudoley nel ruolo impervio e faticosissimo di Renata, già apprezzata nel lungo monologo che prevede impennate melodiche di notevole bellezza. Rende bene, anche dal punto di vista psicologico, la complessità ambigua e contraddittoria del personaggio: donna che crede di aspirare alla santità, ma già all’età di otto anni ebbe le prime visioni dell’Angelo di Fuoco (Madiel’), quindi a sedici anni gli aveva chiesto di unirsi sessualmente e in seguito vaneggia varie sue incarnazioni, a partire dal conte Heinrich di cui diviene amante. (E sarebbe interessante raffrontare il personaggio e la sua psicologia malata con altre donne del melodramma, dalla verdiana Azucena a Silvana ne «La Fiamma» di Respighi», ma non c’è spazio, occorrerebbe un saggio intero).
Alla Khudoley tiene testa il fuoriclasse baritono di fama internazionale Nikolaj Putilin (nel ruolo del cavaliere Ruprecht). Bene poi anche il tenore Leonid Zachozaev (il mago Agrippa) e Michkail Petrenko (Inquisitore). Impossibile nominare tutta la pletora dei comprimari, dacché in questa storia di occultismo, magia, apparizioni demoniache, seduzioni e quant’altro, compaiono financo Faust (Aleksandr Morozov) e Mefistofele (Aleksandr Timcenko), nella scena della taverna, in bilico tra tirate filosofiche e lazzi scurrili, e poi il libraio Jakob Glock (il convincente tenore Jurij Alekseev), l’ostessa, clienti e via elencando. Gergiev dipana con singolare acribia la policroma partitura ponendone in evidenza ogni singola screziatura, dando rilievo ad ogni preziosità timbrica (e ce ne sono a centinaia). Tra i tanti possibili, un solo esempio: l’efficacia con cui emerge il clima raggelato nella scena iniziale del monastero ancora impregnato di arcano soprannaturale, prima che la carnalità preda il sopravvento. Di grande pregnanza sinfonica il passo in cui i secchi rintocchi – a simboleggiare l’assenso degli spiriti evocati («se ci sei batti tre colpi») – si vanno infittendo in un climax inesorabile di enorme fascino.
Il clou della rappresentazione, un tripudio di danze orgiastiche ed apparizioni diaboliche, vero e proprio sabba nella conclusiva scena del convento (dove Renata ha creduto di trovare pace, comprensione e redenzione, potendo contare su sole sei monache che la proteggono, ma il fanatismo ha il sopravvento e raggiunge il parossismo). Poi la conclusione con il rogo, scenicamente evocato con uno riuscito coup de théâtre di sole luci e vapori, volto a prefigurare la fine dell’indemoniata (e condannata per stregoneria) Renata. Spettacolo bellissimo, dunque, sul piano scenico e registico, non meno attraente dal punto di vista musicale: una partitura al cui interno climi grotteschi e beffardi convivono accanto a zone magicamente sospese e che Gergiev – merita ribadirlo – interpreta con singolare e nitida efficacia. Un plauso speciale da ultimo al Coro del Regio, ottimamente istruito da Claudio Fenoglio.
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