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Una favorevole e del tutto fortuita circostanza ha fatto sì che in questi giorni a Torino si sia presentata l’occasione di ascoltare una notevole messe di pagine francesi di primo Novecento presso l’Unione Musicale e la Stefano Tempia
di Attilio Piovano
Appena rientrati dal concerto del Quartetto Artemis, mercoledì 15 febbraio, in Conservatorio (per la serie dispari dell’Unione Musicale) ne scriviamo a caldo, a notte fonda, con ancora nelle orecchie e nella mente l’impressione viva delle sonorità strepitose di questo ensemble, in assoluto uno dei migliori complessi d’archi sulle scene internazionali. Tutto francese per l’appunto il programma con due pagine celeberrime ad incastonare un lavoro di Dutilleux. In apertura il Quartetto di Debussy del quale l’Artemis – perfezione tecnica assoluta, indicibile chiarezza formale ed una impressionante quantità di gradazioni coloristiche e dinamiche – ha posto in luce la ricchezza timbrica, con sonorità incandescenti e vibranti di colore già nel primo tempo, come spesse pennellate materiche di un dipinto en plein air. Poi l’atmosfera vagamente iberica del secondo tempo dai vigorosi pizzicati, quindi le estenuazioni del tempo lento, con le sue cangianti e preziose alchimie e le sue zone quasi organistiche, i tocchi arcaicizzanti, tutti elementi individuati a meraviglia dall’Artemis che si è poi fiondato con sicurezza nelle pieghe del Finale dai flessuosi profili curvilinei quasi Liberty. Grande attenzione alle ambiguità armoniche ed a quegli esitanti trasalimenti che fanno del Quartetto di Debussy una pagina tuttora di rapinoso fascino. Molto bene anche il Quartetto raveliano che è di tutt’altra pasta (anche se forse un poco meno congeniale all’Artemis). Apprezzata la capacità rara di evidenziare la fitta tramatura polifonica che innerva il sublime primo tempo, dagli echi vistosamente modali, assai ammirata l’invenzione timbrica dello smagliante Scherzo, che richiede souplesse e somma eleganza (e i quattro interpreti ne possiedono al massimo grado), poi la magia del tempo lento e da ultimo la vertiginosa verve del Vif et agité affrontato con carica energetica. Una vera lezione di stile.
Boeuf sur le toit, spassoso balletto composto da Darius Milhaud – forse il più fecondo del cosiddetto gruppo dei Six, amico di Satie e Cocteau – che nel 1919 mise in musica l’ambiente di un bar parigino all’epoca del proibizionismo
Incastonata tra queste due opere eccelse, Ainsi la nuit di Henri Dutilleux, pagina aspra ed impervia, ma non priva di fascino timbrico: soffre forse di una scarsa concisione, ma denuncia a chiare lettere la derivazione dall’universo francese proto novecentesco (echi delle Danses debussiane, in Miroir d’espace e certe sonorità oniriche già nel Nocturne d’apertura, suoni siderali post raveliani e pre Messiaen, se ci si passa il termine, nelle Litanies). L’Artemis s’è confermato un complesso capace di variare all’infinito i modi di attacco del suono e le sonorità in gradazioni millimetriche, rendendo viva e attraente una pagina pur di non immediato appeal. Applausi vivissimi e come bis le atmosfere ovattate della prima delle Gymnopédies di Satie, con quel suo procedere discreto e soft, come un camminare tra la nebbia, stupefatti ed attoniti: la genialità delle cose semplici.
Ancora all’Unione Musicale il merito di aver messo in cartellone in questi giorni per ‘Atelier Giovani’ un singolare (e godibilissimo) spettacolo di carnevale, al Teatro Vittoria dall’11 al 14 febbraio: già perché di vera messa in scena si trattava ed era l’arguto Boeuf sur le toit, spassoso balletto composto da Darius Milhaud – forse il più fecondo del cosiddetto gruppo dei Six, amico di Satie e Cocteau – che nel 1919 mise in musica l’ambiente di un bar parigino all’epoca del proibizionismo (ma inizialmente doveva trattarsi di un non meglio precisato film di Charlie Chaplin): vi si narra un’improbabile storia, a metà tra dada e surrealismo. Malavitosi e una folla promiscua di personaggi (un boxeur, un bookmaker, un nano nero, una donna dai capelli rossi e un azzimato uomo in marsina) mettono alle strette un poliziotto, dopo aver trasformato il bar in innocua latteria. La testa del piedipiatti finisce decapitata dalle pale del ventilatore, ma per burla: è infatti di caucciù e subito torna a posto come per incanto. Cocteau aveva sbozzato la singolare pantomima per la quale Raoul Dufy ideò i décors e che vide la partecipazione di clowns del circo Medrano e di acrobati della celebre compagnia Fratellini.
Al Vittoria la divertente pagina, imbevuta di folklore sudamericano, in cui politonalità e ritmi diabolici convivono, unificati da un eccitante dinamismo, ha potuto avvalersi di un nuovo e davvero efficace arrangiamento per piccolo ensemble cameristico a cura del pianista e compositore Antonio Valentino. Non solo: di vero spettacolo si è trattato, poetico e naïf al tempo stesso grazie alla sapiente regia e messa in scena di Controluce Teatro d’Ombre (Cora De Maria, Alberto Jona, Jenaro Meléndrez Chas) con gli interventi fotografici di Rosanna Simone e le sagome originali di Cora De Maria, ombristi Vincenzo Di Federico, Lorenza Ferrero, Lilith Minisi, Davide Toscano; e così una ridda di colorate immagini, di suggestive visioni, e di simpatiche trouvailles ora ammiccanti, ora allusive, ora incalzanti, si sono accompagnate alle scatenate melodie carioca per le quali Milhaud ebbe una vera e propria infatuazione. E che non a caso riversò in svariate sue pagine di successo, rientrato a Parigi da Rio de Janeiro dove aveva soggiornato nel biennio 1917-18, quale segretario dell’allora ambasciatore francese, il poeta Claudel.
La serata al Vittoria s’era aperta già nel segno di Milhaud con Scaramouche, superlativo divertissement in origine per due pianoforti (1937), eseguito anch’esso in una irresistibile versione per ensemble da camera curata ancora da Antonio Valentino. Che ha ben colto, nella sua trascrizione, il vitalismo corrosivo dell’iniziale Vif (ma non mancano accenni a canzoni infantili e popolari), affidando poi ad un clarinetto quel clima di lunare nostalgia che caratterizza lo stupefatto Modéré quasi dolce rêverie in bilico tra Debussy e Poulenc; da ultimo l’euforizzante vigore di una strepitosa Samba sferzata da scariche elettriche, a suggello di una delle cose più belle del ‘900 storico francese, a dir poco geniale. Ammirati ed a lungo applauditi tutti gli affiatati interpreti, esuberanti comme il faut (si trattava di Piergiorgio Rosso Georgia Privitera violini, Angelo Conversa viola, Francesca Gosio Francesca Villa violoncello, Umberto Salvetti contrabbasso, Giampaolo Pretto flauto e ottavino, Simone Cremona clarinetto, Adriano Mela corno, Dino Domatti tromba, Antonio Valentino, Glenda Cantone pianoforte, Jordi Manuello percussioni).

Musica francese anche in Conservatorio, lunedì 13 febbraio, per il cartellone della blasonata e gloriosa Accademia Corale ‘Stefano Tempia’, la più antica istituzione concertistica cittadina fondata nel 1875 (con l’attuale direzione artistica di Guido Maria Guida): ed ancora con la presenza dell’infaticabile pianista Antonio Valentino ad affiancare un ensemble di fiati dalla singolare bravura, tutte ottime prime parti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai, elementi del Nuovo Doppio Quintetto di Torino da essi stessi costituito nel recente 2007 e già forte di un corposo palmarès (Alberto Barletta flauto, Francesco Pomarico oboe, Cesare Coggi clarinetto, Corrado Saglietti corno, Elvio Di Martino fagotto). La serata s’era aperta nel segno di Mozart (il sublime Quintetto K 452 interpretato con finezza ed appropriatezza di stile), ma è con il raffinato Divertissement op. 6 dell’ufficiale di marina Albert Roussel che il pubblico ha potuto apprezzare la coesione dell’ensemble, la vivacità ritmica impressa alla superba partitura, come pure la capacità di ‘re-inventare’ i timbri e delineare quegli sberleffi quasi stravinskijani e quelle agrodolci sonorità insite nella partitura. Assai apprezzati anche nel Sestetto del gigione Poulenc, con quella parte centrale elegiaca, struggente, striata di spleen, e quel finale sbarazzino, ironico e scanzonato, di cui gli interpreti – in perfetta sintonia stilistica, oltre che tecnica, s’intende – hanno restituito la stimmung. Applausi protratti ed uno spassoso bis ‘ubriaco’ di Jean Françaix.
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